Si può dare delle prostitute a cinque giovani donne, con nome e cognome, in diretta tv, senza che nessuna associazione insorga? Si può dire che una ragazzina «si manteneva facendo la prostituta» quando era minorenne, senza che nessun Garante della privacy o dei diritti dell'infanzia apra un fascicolo? Apparentemente si può: alla condizione che le ragazze in questione siano colpevoli di ben altra colpa, avere accettato l'invito a una festa del «Sultano», ovvero di Silvio Berlusconi. E, colpa ancora peggiore, di avere rifiutato di trasformarsi in testimoni d'accusa, di riempire i verbali di storie di lapdance e di toccamenti come i pm pretendevano da loro.
Anche questo è accaduto mercoledì nell'aula del processo Ruby ter, ed è passato quasi inosservato, mediaticamente travolto dalla richiesta di condanna a sei anni di carcere per il Cavaliere. Sulla strada per arrivare al nome cruciale, quello che tutti aspettavano a taccuini sguainati, i pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio hanno dovuto fare a fette la reputazione di ventuno giovani donne. Arrivando a negare che una reputazione quelle donne l'abbiano mai avuta. In mezzo all'elenco c'è di tutto, come materiale umano. Finite al centro di una indagine dall'eco planetaria, le ex Olgettine si sono comportate ognuna a modo suo. Qualcuna è sparita, qualcuna ha cercato di girare pagina, un gruppetto si è messo a subissare il Cavaliere e il suo staff con richieste di denaro così martellanti da sfiorare il ricatto. Di queste richieste la requisitoria dà conto, come è inevitabile. Ma poi i pm vanno avanti. E rifilano a un gruppo di ragazze l'epiteto più antico e infamante che una donna possa ricevere. Le telecamere sono accese, registrano tutto.
Non accade per caso. Ai pm serve per tenere in piedi il castello accusatorio, che potrebbe crollare su un articolo del codice penale. Perché delle due l'una: o ad Arcore non accadeva nulla di illecito o di immorale, e allora questo è un processo sul nulla; oppure ha ragione la Procura, e la residenza del capo del governo era diventata «un harem», «un postribolo» eccetera. Ma se la verità è la seconda, non possono essere certo le Olgettine a doverlo testimoniare: perché l'articolo 384 del codice penale prevede che non possa essere accusato di falsa testimonianza chi ha mentito per salvarsi «da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore». E quale danno all'onore si può immaginare peggiore che raccontare di avere fatto sesso per denaro? Ammesso e non concesso che fosse quella la realtà, le ragazze per legge avevano il diritto di negarlo.
La Procura ne è consapevole. E per aggirare l'ostacolo non ha altra strada che infierire sulle giovani. Non solo erano delle prostitute, dice il pm Gaglio, ma erano già note come tali. Non c'era più nessun onore da salvare, dice il pm. «Tutta Milano sapeva che alcune di queste ragazze si prostituivano», dice: e snocciola una serie di nomi. «Ci sono calciatori ed ex calciatori famosi che chiamavano chiedendo quale fosse la tariffa». E via con altri nomi di ragazze. «Se un fatto che lede l'onore di una persona è già noto, quella persona non può mentire. Lo sanno tutti, non puoi pretendere che non ti venga chiesto in aula». Poco conta, per il pm, che in realtà prima dell'inchiesta il nome di Ruby e delle altre non dicesse niente a nessuno, e che solo grazie a pm e giornali queste donne si sono ritrovate il marchio addosso. Secondo la Procura sarebbero dovute venire in aula, a porte aperte, ad ammettere.
E se non volevano accusare se stesse, dice il pm, avrebbero almeno potuto accusare le altre: in un bel processo dove le venti ragazze si sarebbero date a vicenda delle meretrici. Non lo hanno fatto, e per questo adesso la Procura chiede che siano condannate.
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