Le vedove e gli orfani dei combattenti stranieri dello Stato Islamico, i cosiddetti foreign fighter, sono uno degli effetti indesiderati del disfacimento dell'organizzazione terroristica in Siria e in Iraq. La scelta di come gestirli può far traballare anche i governi europei. In Norvegia la prima ministra Erna Solberg, in carica dal 2013, ci ha appena rimesso l'alleato principale e più longevo della coalizione di cui è a capo, che ora andrà avanti come governo di minoranza. Dopo aver ventilato l'ipotesi nei giorni precedenti, ieri il Partito del Progresso (Frp), formazione populista e anti immigrazione, ha annunciato la decisione definitiva di abbandonare l'esecutivo per protestare contro il rimpatrio dalla Siria di una donna di 29 anni, sospettata di avere legami con l'Isis, e dei suoi due figli, di cui uno gravemente malato e bisognoso di cure. L'esecutivo norvegese ha giustificato la scelta parlando di «ragioni umanitarie», e la premier Solberg ha rivendicato la scelta come «corretta» anche dopo la defezione degli ex partner di governo. L'ipotesi di far rientrare solo il bambino, inizialmente presa in considerazione e sulla quale anche il Frp aveva mostrato un'apertura, non si è rivelata percorribile perché avrebbe implicato la separazione del piccolo dall'unico genitore rimasto. «Il nostro dilemma era se rimpatriare un bambino con la madre oppure rischiare che morisse», ha chiarito Solberg. Per la leader del Partito del Progresso e ministra delle Finanze dimissionaria, Siv Jensen, questo sarebbe stato l'ennesimo compromesso all'interno della coalizione. Ma, ha spiegato la donna, «non facciamo compromessi su gente che ha partecipato a organizzazioni terroristiche». Ora la premier dovrà sostituire, oltre a Jensen, altri sei ministri del Frp, cercando di mantenersi in sella all'esecutivo con il sostegno solo dei Liberali e del Partito popolare cristiano.
Quale ruolo avesse in Siria la 29enne rimpatriata non è chiaro. La donna, di cui non sono state diffuse le generalità, ha negato di essere stata un membro dell'Isis. Cresciuta a Oslo in una famiglia di origini pakistane, secondo quanto ricostruito dai media locali avrebbe frequentato l'università e giocato a calcio nella capitale norvegese. Poi, nel 2013, la scelta di partire per la Siria. Lì, nei territori allora controllati dal sedicente Califfato, si sarebbe sposata due volte con altrettanti jihadisti. Dai matrimoni sono nati due bambini, un maschio di 5 anni e una femmina di 3, con cui oggi la donna è stata fatta rientrare nel Paese dal campo di Al-Hol controllato dai curdi, nel Nord-Est della Siria, dove era detenuta dal marzo 2019. Non era l'unica norvegese: almeno altre quattro donne partite dal Paese nordeuropeo e poi affiliatesi allo Stato Islamico si trovano tuttora nei campi situati sul territorio siriano.
E quello di Oslo non è l'unico governo a dover decidere come gestire il problema: secondo stime dell'ong Save The Children, a ottobre 2019 nei tre campi profughi siriani principali si contavano 8.700 minori di 40 nazionalità diverse su un totale di persone di origine straniera, né siriana né irachena, che superava le 12mila.
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