Quando ero piccola il corpo reale non era sostituibile col cyberspace. Adesso il computer, lo smartphone, cercano di compiere la magia: allora, quando mio padre era trattenuto nella Polonia comunista e il confine era invalicabile, noi, mamma e figlie, non potevamo visitarlo né lui poteva raggiungerci; solo un telefono nero su un tavolino a Firenze era tutto quello che travalicava la separazione che durò ben quattro anni. Quando ci ritrovammo alla stazione di Firenze e lui arrivo trasfigurato, magro, portando in regalo delle corone di funghi secchi e delle bambole di legno, niente restò uguale. La vita che era enormemente cambiata con la sua lontananza cambiò alle radici con la sua vicinanza. Fu illuminata dalla libertà dell'uomo di andare, di muoversi, di scegliere il luogo in cui essere, in compagnia di chi vuole. La dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo ne parla all'articolo 13, «ognuno... ha il diritto di lasciare qualsiasi Paese e di ritornarci». Oggi la guerra contro il coronavirus ci ha portato a spogliarci di questo diritto primario, io quaggiù in Medio Oriente, a Gerusalemme con parte della mia famiglia, e un'altra parte è lassù in Italia; noi, con disposizioni dure e importanti, le scuole chiuse, le riunioni limitate nel numero, migliaia di segregati rientrati dall'estero, ma con un numero relativamente basso di contagiati e nessun morto, grazie alla tempestività delle misure; e di là, i miei cari e i miei amici nelle loro stanze, in segregazione, col numero dei contagiati e anche dei morti che fa lampeggiare la parola «pericolo» in rosso. Fra noi, gli aeroporti vuoti, trasformati in monumenti marmorei all'era che non è con noi. Non posso più andare arrivare in tre ore nei paesaggi e nel linguaggio della mia vita, fra i miei affetti. Seguo i dibattiti in Italiano, ascolto i miei amici giornalisti cercare di spremere saggezza e idee su una situazione impraticabile, sudo con loro, vedo in tv Nicola Porro malato e mi spavento, chiamo e richiamo su whatsapp e su skype le persone della mia vita, e certo, sono fortunata a travalicare il confine su internet e non col telefono nero con cui scambiavamo due dispendiose parole di amore col babbo prigioniero. Ogni minuto, il telefonino cinguetta che è arrivata una barzelletta, una battuta in italiano. Insieme, oltre il Mediterraneo. Ma il ritiro dalla spazio fisico verso lo spazio virtuale acuisce la nostalgia, ogni chilometro pesa senza la libertà di percorrerlo. Quando ho coperto la caduta del muro di Berlino vidi i bambini entrare in massa nei grandi magazzini a Ovest; arrivarono di corsa e restarono ipnotizzati, fermi, di fronte ai cioccolatini e ai giocattoli che vedevano per la prima volta. Quei pochi isolati di libertà inauguravano un mondo emotivo e conoscivo. Muoversi, come sapevano bene i «refusenik» in lotta da decenni per lasciare il mondo comunista, è la libertà stessa.
Ci vuole quel genio di Tocqueville: «La libertà trae i cittadini dall'isolamento ... li scalda e li unisce ogni giorno con la necessità di capirsi, di persuadersi, e di favorirsi scambievolmente...». Qui e là stiamo combattendo una battaglia indispensabile e anche grande, e questo scavalca il mare.
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