A Bruxelles c'è chi la chiama partita delle nomine. E lo è. Per ora è terminata, ieri sera, con l'approvazione da parte dei leader europei dei nomi, proposti dalla maggioranza Ppe-Pse-Liberali, della popolare Ursula von der Leyen per un bis alla Commissione europea fino al 2029 (in attesa però del voto dell'Europarlamento), del socialista portoghese António Costa alla presidenza del Consiglio europeo e della premier estone Kaja Kallas per il posto di Alto rappresentante Ue per la politica estera.
Ma quello che va in scena è anche un dodicesimo round tra due protagonisti del ring Ue: un capo dello Stato francese che fino a pochi mesi fa si presentava come il campione dell'europeismo, Emmanuel Macron, e l'underdog Giorgia Meloni, diventata ormai figura accreditata anche dall'Economist per «dare forma all'Europa» del prossimo futuro. Siamo sempre lì: Manù e Giorgia, due leader che mai si sono presi. Storie troppo diverse, abboccamenti iniziali; vari tentativi di avvicinamento fra i rispettivi ministri su singoli dossier. Ma mai un'intesa comune. Fino alla resa dei conti di ieri. Programmi, non solo nomi. Nonostante fosse profondo il solco ideologico tracciato alla vigilia da due pezzi della maggioranza Ursula, socialisti (di Schlein) e liberali (di Macron), è parso subito chiaro che la conventio ad excludendum denunciata da Meloni a Montecitorio fosse ritenuta una strada rischiosa per tutti, anche per la tenuta del lifting da garantire all'Ursula-Bis, in previsione della fiducia da ottenere all'Europarlamento dato che nel 2019 i franchi tiratori furono almeno una settantina. Dunque, prima ancora che iniziasse il Consiglio per chiudere il cerchio sui cosiddetti top jobs (i ruoli di vertice del prossimo governo Ue), l'aria era già cambiata, con buona pace di Macron. Il premier polacco Tusk cercava i cronisti per dire a chiare lettere che non ci sarebbe stata decisione senza la premier italiana: «Non c'è Europa senza Italia». Perfino il socialista e cancelliere tedesco Scholz scaldava l'atmosfera in nome del pragmatismo: l'intesa raggiunta in solitaria tra tre famiglie di partiti «è solo una posizione, ne discuteremo equamente con i nostri buoni amici, tutti e 27 ugualmente importanti, avanzare una proposta che possa contare sulla maggioranza del Parlamento». Toh, l'Europa si accorge che serve più Meloni che Macron. E che la posizione italiana che chiede confronti sui contenuti più che sui nomi, dev'essere tenuta in «altissima considerazione». Pragmatismo, insomma. Dietro alla partita delle nomine c'era da affrontare pure le scorie del gelo Meloni-Macron, anche a fronte di quanto scritto dal Financial Times alla vigilia del Consiglio. Uno scontro frontale per contendersi un posto di primo piano nell'economia della prossima Commissione europea. Entrambi, Italia e Francia, in cerca di una vicepresidenza di peso, con delega a Commercio, Industria, Difesa. Macron ha ripresentato Breton, contrapponendosi all'Italia con l'ipotesi Fitto o Crosetto.
Si lotta, sul ring. Dopo il gelo registrato al G7 a presidenza italiana in cui Meloni accusò il presidente francese (senza citarlo) di far campagna elettorale utilizzando il prezioso forum come azione di disturbo per isolarla in Europa. E ieri per ottenere qualcosa a tre giorni dal primo turno di voto in Francia dove l'avanzata della destra lepenista potrebbe risultargli fatale. Invece a Bruxelles si apre al coinvolgimento di Meloni nella doppia veste di premier del Bel Paese e leader dei conservatori Ue per garantire l'elezione del nuovo capo della Commissione, mentre Macron & Co.
alla vigilia volevano invece tagliar fuori: «Fondamentale un processo inclusivo che tenga conto degli interessi italiani», taglia corto Weber, presidente del Ppe. Mentre il ministro degli Esteri Tajani fa da ponte ribadendo che era nelle cose avere una vicepresidenza per l'Italia e un portafoglio degno della terza economia Ue seconda per manifattura.
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