Non ha impedito le stragi? I pm indagabili come Mori

Se è una colpa non aver fermato l'attacco allo Stato la condividono anche Scarpinato, Pignatone e altri

Non ha impedito le stragi? I pm indagabili come Mori

Gli ex magistrati Giancarlo Caselli, Roberto Scarpinato, Alberto Maritati, Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone potrebbero essere inquisiti per non aver impedito le stragi del 1993 o per non aver tentato di sventarne altre come quella fallita allo Stadio Olimpico. O altre ancora neppure avvenute come quella alla Torre di Pisa; così come invece, a Firenze, nel maggio scorso, è stato incredibilmente inquisito il generale Mario Mori in relazione a sue presunte «complicità esterne» nelle stragi del 1993, tecnicamente per i reati previsti agli articoli 422 (strage, appunto) e 110 (concorso) e 416 bis (associazione mafiosa) nonché 270 (associazione con finalità di terrorismo ed eversione). Allo stesso modo potrebbero essere stati inquisiti gli ex magistrati Vittorio Aliquò e Giovanni Tinebra, se non fosse che sono morti.

Trent'anni di ritardo. Lo sfondo, indimenticabile, è quello delle bombe esplose nel 1993 a Firenze (via dei Georgofili, 27 maggio) e a Milano (via Palestro, 27 luglio) e a Roma (San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, 28 luglio) più l'autobomba rimasta inesplosa vicino allo Stadio Olimpico il 23 gennaio 1994. Il generale Mori, ricordiamo, è l'inventore del Ros dei Carabinieri ed è l'uomo che catturò Totò Riina, e, ora, è inquisito a Firenze dal maggio scorso con l'accusa di non aver impedito le stragi nonostante sia già stato processato per 11 anni con l'accusa di aver fatto una «trattativa» per farle cessare. Il tutto sarebbe avvenuto nel drammatico periodo seguito agli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, maggio-luglio 1992.

Il generale Mori, in quel concitato periodo, fu contattato dal maresciallo Roberto Tempesta che gli raccontò di un presunto proposito di Cosa Nostra di attentare al patrimonio storico e artistico del Paese, in particolare alla Torre di Pisa; successivamente, nel giugno 1993, raccolse altre voci dal pentito Angelo Siino circa possibili attentati mafiosi nel Nord Italia.

Non c'è niente di segreto in questo, si sa tutto da trent'anni: al punto che i citati Roberto Tempesta e Angelo Siino, nel 1994 e nel 1998, furono già interrogati dalla Procura di Firenze sugli stessi argomenti.

Questa è la base dell'assurdo assioma che la Procura di Firenze ha applicato a Mori con trent'anni di ritardo: ma la stessa base, secondo le carte in mano al Giornale, dovrebbe portare a indagini su altri magistrati, che pure, secondo lo stesso assioma, non fermarono le successive stragi del 1993.

Maritati non fermò le stragi.

Alberto Maritati è un ex magistrato che si occupò di inchieste anche politiche (sua una del 1992 contro il socialista Rino Formica, assolto in appello dopo 18 anni) e che poi divenne parlamentare per i Democratici di sinistra. Invece Salvatore Annacondia è un pentito che fu ascoltato dalla commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante (Pds) il 30 luglio 1993, laddove il galeotto disse d'aver saputo, in carcere, «che quanto prima si doveva iniziare a mettere qualche bomba a qualche museo»; aggiunse di aver subito informato, «alcuni mesi fa», il Procuratore nazionale antimafia Alberto Maritati: «Feci un colloquio investigativo con Maritati nel quale accennai ad attacchi e stragi ai musei. Ne parlai appunto con lui. Ai carceri dell'Asinara e di Rebibbia sono stati fatti gli stessi ragionamenti e gli accordi erano quelli, ormai. Si doveva lanciare un piccolo segnale, ma il segnale grosso si doveva lanciare dopo il 20 luglio parlai con il dottor Maritati che mi venne ad ascoltare: tutti gli attacchi bisognava farli ai musei...Perché il museo fa parte della città, del Paese, della storia». Dinnanzi alla commissione Antimafia, insomma, Annacondia disse d'averne parlato più volte col magistrato: «Gli dissi proprio che entro il 20 di luglio, se non veniva abolito questo 41-bis, ci sarebbero state delle stragi e degli attacchi ai musei, perché colpendo il museo colpisce il cuore dello Stato, colpisce l'amore degli italiani, colpisce l'opinione pubblica».

La vicenda sembra perfettamente sovrapponibile a quella che ha visto inquisire il generale Mori nel maggio scorso: anche Maritati non ha impedito le stragi del 1993 «mediante doverose segnalazioni» o denunce o indagini proprie: la sola differenza è che Maritati non era un ufficiale dei carabinieri, ma era un magistrato. Ci sono altri casi.

La circolare inutile.

Anche il faccendiere Elio Ciolini, ritenuto uomo di rapporti col mondo criminale, nel marzo 1992 parlò di un'imminente campagna stragista; per questo il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti e il capo della polizia Vincenzo Parisi diramarono una circolare indirizzata a tutti i questori e prefetti: si paventava un «progetto di destabilizzazione del sistema democratico» e attentati contro esponenti dei principali partiti e contro il Capo dello Stato. Il 10 aprile, Ciolini fu perciò interrogato dai pm di Palermo Giuseppe Pignatone e Vittorio Aliquò, e l'atto istruttorio faceva esplicito riferimento a una sua lettera alla Procura di Firenze (4 marzo 1992) che aveva per oggetto una «nuova strategia tensione in Italia, periodo marzo-luglio 1992», e in essa si accennava a «fatti intesi a destabilizzare l'ordine pubblico come esplosioni dinamitarde». I due pm, tuttavia, interrogarono Ciolini solo sui precedenti omicidi degli onorevoli Lima e Mattarella (sui quali Ciolini peraltro non disse una parola) e non chiesero nulla circa la strategia stragista che aveva ovviamente la priorità, e che aveva originato la circolare diretta questori e prefetti. Pignatone e Aliquò non chiesero nulla a Ciolini, neanche successivamente, dopo le prime stragi contro Falcone e Borsellino: un'altra «omissione» perfettamente sovrapponibile a quella oggi contestata al generale Mori.

L'avvertimento di Cancemi.

Così pure accadde quando i procuratori Caselli, Scarpinato, Sabatino il 22 luglio, e Tinebra e Boccassini il 17 novembre 1993, interrogarono il boss siciliano Salvatore Cancemiche aveva deciso di «collaborare e di dissociarsi da Cosa Nostra in quanto disgustato dalla strategia sanguinaria». Nella seconda data, in particolare, Cancemi disse che «Riina e Provenzano sono la stessa testa, la stessa mente, la stessa strategia gli attentati ultimi di Roma, Firenze e Milano sono addebitabili a Riina, Provenzano e al loro gruppo di fuoco, né deve meravigliare che abbiano agito fuori dalla Sicilia, anzi hanno voluto dimostrare che possono colpire ovunque Ho motivo di credere che la strategia possa andare ancora avanti se lo Stato non riuscirà a catturare in tempo Provenzano, Bagarella, Brusca, Greco, Aglieri, i fratelli Graviano». Cancemi riferiva questo prima del fallito attentato allo stadio Olimpico, il quale, se non ci fosse stato un malfunzionamento del telecomando, sarebbe stato il più devastante: una grandine di migliaia di proiettili ferrosi e di schegge infuocate avrebbero causato tra i 100 e i 200 morti più un numero incalcolabile di amputati e deturpati, senza contare le migliaia di persone che per mezzo chilometro si sarebbero calpestate nel panico.

Anche questi procuratori, secondo l'assurdo assioma della procura di Firenze, al pari del generale Mori (allora semplice ufficiale, e non certo magistrato) appresero che «la strategia possa andare ancora avanti», oltre ad apprendere che i precedenti attentati erano

addebitabili a «Riina, Provenzano e al loro gruppo di fuoco». Anche loro rivestivano una posizione di garanzia, ma, diversamente dal generale Mori, non rivestivano, come lui, lo status di inquisito in forma effettiva e permanente.

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