Quello di Mario Draghi è un muro di gomma. Contro il quale rimbalzano per ore il M5s e anche la Lega, decisi a strappare una risoluzione che non faccia riferimento al decreto Ucraina, quello approvato lo scorso marzo dalle Camere a larghissima maggioranza. A Palazzo Chigi, infatti, non ne vogliono sapere, ben consapevoli che quel provvedimento è il fondamento giuridico che legittima il governo anche sul fronte dell'invio di armi a Kiev fino al prossimo 31 dicembre. Cedere sul punto, significherebbe di fatto farsi «commissariare», con il rischio di dover passare dal Parlamento per qualunque tipo di intervento. Per Draghi una soluzione inaccettabile. Non solo perché il quarto decreto interministeriale per l'invio di ulteriori armi in Ucraina è già in cantiere (sarà pronto in due-tre settimane) o perché l'agenda internazionale è già oggi molto fitta (Consiglio Ue a Bruxelles, G7 in Baviera e vertice Nato a Madrid nei prossimi otto giorni). A preoccupare il premier, infatti, c'è anche la collocazione internazionale di chi ieri ha alzato la fronda.
Dopo la giornata di lunedì, dunque, anche la mattinata di ieri è piuttosto faticosa per Federico D'Incà e Vincenzo Amendola. Il ministro dei Rapporti con il Parlamento e il sottosegretario agli Affari europei hanno infatti il compito di portare avanti la mediazione durante le oltre undici ore di riunione fiume sul testo della risoluzione. In costante contatto con Palazzo Chigi, che non lasciato spazio a concessioni. Anzi, ieri mattina il messaggio recapitato al M5s non lasciava spazio a interpretazioni: il riferimento al decreto 14 del 2022 non è rinunciabile e sia chiaro che se il Movimento decidesse di non sostenere la risoluzione o di votarla per parti separati la cosa non sarebbe senza conseguenze. Insomma, se dovesse cambiare la maggioranza, pur non essendoci problemi di numeri, si aprirebbe comunque la strada alla crisi. Perché il governo Draghi, con tutta evidenza, non è un esecutivo politico, ma è il frutto di un accordo che ha la benedizione del Quirinale e che coinvolge quasi tutto l'arco parlamentare (a parte FdI che conta però meno di 60 parlamentari). Nessuno si illuda, insomma, di venire meno agli impegni e fare campagna elettorale sulle spalle degli altri partiti senza che questo non implichi conseguenze. E la prima Giuseppe Conte la sta già vivendo sulla sua pelle, visto che il suo tentativo di alzare l'asticella in maniera pretestuosa e per giunta su un tema così delicato come la guerra in Ucraina ha dato il là al redde rationem all'interno del M5s. Se l'ex premier ha provato a giocare la carta della fronda sulla politica estera e sull'invio di armi in Ucraina (una questione che coinvolge la collocazione geopolitica dell'Italia, visto che si tratta di decisioni prese in ambito Ue e Nato), Luigi Di Maio ha deciso di replicare dando il via alla scissione dei gruppi grillini. Una resa dei conti che si consuma sulla politica estera, ma che in realtà è umana e personale. Non è un caso che nel Salone Garibaldi del Senato un sorridente Pier Ferdinando Casini non esiti a definire l'Ucraina solo un «pretesto». Meno ecumenico Matteo Renzi, che parla senza mezze misure di «pagliacciata» di Conte per poi celebrare la fine del Movimento: «Oggi sono morti i Cinque stelle, vi devo fare le faccette?».
Draghi ha assistito a quello che è nei fatti il funerale del M5s senza battere ciglio.
Anche se nella sua replica in Senato sembra essere nascosto un monito a chi ha preferito trasformare il voto di ieri in una resa di conti politica: «Le decisioni che si devono prendere in questi momenti sono profonde e hanno risvolti morali. Avere il sostegno del Senato è per me molto importante». Come a lasciare intendere che è questo il punto centrale e non certo le beghe da retro bottega.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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