La nuova vita di Barbie da pupa a influencer

Ha ispirato mode, anticipato tempi, fatto sognare bimbe. E ora? Si «maneggia» sul web

La nuova vita di Barbie da pupa a influencer

Sarà pure diventata una influencer (come tante), e viaggerà su Youtube in episodi tridimensionali. Insomma, come sempre, si è adeguata ai tempi, ha fiutato il vento e lo ha cavalcato scaltra e camaleontica. Ma, di scuro, è rimasta se stessa. Quella bambola unica al mondo, una donna in miniatura, nata dal genio di Elliot Handler e sua moglie Ruth giusto sessanta anni fa (il 9 marzo 1959). Imprenditori e cofondatori della Mattel, l'azienda che distribuisce la bambola in tutto il mondo, i due coniugi americani brevettarono il giocattolo osservando la loro bambina (Barbara, dalla quale prende il nome la creatura di plastica) giocare con bamboline di carta: e attribuire loro personalità, farle interagire da adulte. Da lì, il primo modello in costume da bagno, i fianchi larghi, gli occhi scuri, i boccoli freschi di bigodini e lo sguardo sfuggente. E, soprattutto, tanta voglia di abitare la fantasia delle bambine d'Occidente: di parlare con le loro voci, di avere migliaia di vite, di accompagnare generazioni. Barbie nasce ambiziosa e centra tutti i bersagli.

Costruita in Giappone, le si affianca un eterno fidanzato (il sorridente Ken, spalle larghe e una dozzina di professioni diverse già nei primi vent'anni sul mercato); e una schiera di sorelle minori. Poi arrivano le amiche, e soprattutto l'istanza politically correct (e divertentissima, esotica per le bambine europee) del cosmopolitismo. Uno stuolo di fanciulle altolocate come lei, ma di etnia afroamericana, asiatica, o semplicemente varianti fashion di quella che era diventata la bionda più famosa d'America dopo Marliyn: l'unica a potersi consentire musei e statue di cera senza essere mai stata una diva in carne ed ossa. E ancora, negli ultimi decenni: disabile, calva (un'edizione distribuita negli ospedali pediatrici, ma non solo, per empatizzare con le bambine e con le donne in chemioterapia); e vestita col burqa, ma anche transessuale. «Barbie Drag Queen», opera del 2012 divenuta realtà da un progetto di Philippe e David Blonde, coppia di designer newyorchesi: il senso del marketing, insomma, non è mancato mai. Neanche quando è arrivato il momento, quattro anni fa, di avvicinare la sua inscalfibile perfezione (un metro e ottanta d'altezza, 90-60-90 come i parametri perfetti delle Miss anni '80) alla più realistica e tenera cellulite della «ragazza della porta accanto»: la Barbie «curvy», cioè una taglia 44 abbondante che recuperasse quota quando le prime influencer su Instagram stavano riportando in auge un canone estetico emaciato e, forse, non proprio esemplare nel rapporto con l'alimentazione.

E comunque, che fosse hostess o ballerina, veterinaria o crocerossina, cassiera, ginnasta, astronauta, Barbie è stata un'icona della femminilità che non ha mai ceduto alle lusinghe del femminismo. Ha incarnato, piuttosto, di volta in volta (ed escludendo le eccezioni eclatanti), il genere di donna che fa piazza pulita di spasimanti, molto più che un ideale affrancato dalla seduzione facile. Anzi, le sue gambe sono diventate sempre più sottili, e le sue ville a Malibu, sempre più fastose. Astuta, ma senza tradirsi mai.

E adesso? È difficile pensarla estinta, passata di moda, superata. Eppure è così.

Alle bambine di oggi piace seguire le sue avventure sul tablet del papà, molto più che maneggiarla e assegnarle una storia sua, come succedeva al tempo in cui Barbie nasceva: com'è stato per decenni, prima che l'immaginazione diventasse una ginnastica della mente più passiva, più comoda, più immersa nell'attività di osservare che in quella di generare frutti e narrazioni dell'inventiva infantile. Cioè, l'antico core business di Barbie: da scettro a forma di donna, a vamp da tastiera da un milione e mezzo di follower. Avere sessant'anni, nel 2019, e senza bisogno di lifting.

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