La scelta del castello di Elmau, luogo di serena bellezza tra le Alpi bavaresi, non è probabilmente estranea alla volontà di proporre un contesto rilassante per il G7 che si apre oggi. Necessità indiscutibile, considerate le oggettive difficoltà con cui dovranno confrontarsi nel sud della Germania i sette Grandi dell'Occidente.
Basterebbe un raffronto con il vertice precedente, che si era tenuto un anno fa a Carbis Bay in Inghilterra: in quell'occasione, il presidente degli Stati Uniti si era presentato garantendo il ritorno del suo Paese come solido alleato dell'Europa (America is back) dopo il quadriennio di Donald Trump alla Casa Bianca che aveva scosso alla radice le certezze dei pigri europei, abituati a contribuire poco più che simbolicamente al budget Nato per la propria difesa e follemente ciechi di fronte ai rischi impliciti nell'affidarsi alla Russia per i propri approvvigionamenti di gas e di petrolio.
Joe Biden non solo aveva stabilizzato le relazioni con l'Europa, ma - sembra trascorso un secolo - aveva anche dedicato una tappa del suo viaggio oltre Atlantico a un faccia a faccia con Vladimir Putin. Da quell'incontro di tre ore nella neutrale Ginevra, il presidente-dittatore russo aveva tratto conclusioni errate (peraltro rafforzate dall'imbarazzante ritiro americano dall'Afghanistan nel successivo agosto) sulla mollezza dell'Occidente: convinto che, messo davanti al fatto compiuto di una conquista militare, si sarebbe limitato alle solite condanne verbali, nel febbraio del 2022 ordinò l'invasione dell'Ucraina. Che, come oggi sappiamo, ha prodotto finora effetti molto diversi da quelli sperati al Cremlino, tanto che la guerra lampo immaginata da Putin è entrata nel quinto mese e promette di durare anche più a lungo, soprattutto in conseguenza dell'inattesa tenuta del fronte politico occidentale.
Al dato di fatto della prosecuzione della guerra in Ucraina si aggiungono e sono gli altri temi sul tavolo dei Sette a Elmau - la catastrofica crisi alimentare generata ben oltre i confini regionali dalla cinica scelta di Putin di bloccare lo strategico export di cereali dall'Ucraina e, più in generale, la necessità di armonizzare il più possibile le politiche tra partner occidentali relative alla complessa gestione della crisi. Il tema più delicato è quello delle sanzioni imposte alla Russia: Biden intende schiacciare ancora sull'acceleratore delle misure destinate a ostacolare lo sforzo bellico e la tenuta stessa del regime di Mosca, ma è evidente che le loro ricadute sono più pesanti da questo lato dell'Atlantico. Per quanto consapevoli delle necessità di sacrifici imposte dalla gravità del momento, i leader di Berlino, Parigi e Roma tendono a tirare almeno in parte il freno. Infatti, i seri problemi di approvvigionamento che sono costretti a fronteggiare fanno impennare i prezzi dei carburanti e dei generi alimentari, tanto che il sostegno a Kiev da parte delle opinioni pubbliche europee scricchiola.
In relativa difficoltà sul fronte militare, Putin usa con spregiudicatezza l'arma del ricatto energetico, puntando a dividere gli europei dall'asse angloamericano, più determinato ad azzoppare l'economia russa e ad armare gli ucraini. È certamente Putin il convitato di pietra di questo summit, nel quale spera di veder germogliare i semi del dissidio tra alleati occidentali che ogni giorno sparge.
Da una parte, confidando in un allentamento della volontà coesa di appoggiare l'Ucraina, che al di là delle chiacchiere inutili egli mira ad annettersi intera, prima o poi, come già ha fatto con la Crimea; dall'altra, continuando a diffondere illusioni sulla prospettiva tutt'altro che credibile di aperture
russe sul fronte dell'export del grano ucraino: sono purtroppo solo bugie tattiche, che a Putin interessa usare per ottenere lo sminamento del Mar Nero nell'area prossima al porto di Odessa, che Zelensky non concederà mai.
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