Il Partito democratico è allergico al voto popolare. Un'orticaria così pungente da averli già proiettati direttamente al post-voto, quando una volta ancora proveranno ad iniziare il solito X-Factor per scegliersi gli alleati di governo.
Alcuni leader del Pd come il ministro del Lavoro Andrea Orlando, talvolta in controtendenza rispetto alla posizione ufficiale del segretario Enrico Letta, rimbalzato sia da Calenda che da Conte, nemmeno si nascondono più. Vista la campagna flop del "voto utile" inventato da Silvio Berlusconi ai tempi del PdL e rispolverato da Letta, Orlando già parla di una "prospettiva chiara" da presentare subito agli elettori: malgrado tutto, dice Orlando nelle conversazioni con i suoi colleghi e nelle interviste sul web, "un campo largo, dal terzo polo ai 5stelle, si può realizzare in una maggioranza di governo dopo il voto".
Orlando insomma boccia la linea Letta perché la linea Letta sta bocciando la proposta del Pd. Anziché convincere gli elettori a sabotare Azione e M5S per permettere ai dem di vincere più collegi possibili tra i 221 uninominali, i sondaggi danno il Pd a dir poco inchiodato o persino in flessione rispetto alla "rimonta" del Movimento 5 Stelle di Conte.
Il Ministro allora, anziché piagnucolare come Letta che scarica la responsabilità di questa situazione alla legge elettorale, il Rosatellum, votata dal Pd, preferisce direttamente ragionare in un'ottica proporzionale, parlando di una coalizione "de facto" già esistente con Pd, 5 Stelle e Terzo Polo. Di certo, a differenza della strategia di Letta, la possibilità di una alleanza col Pd è il modo più astuto per convincere gli italiani a non votare né Calenda né Conte, né il Pd. Siccome ha fiutato la trappola, l'ex premier a Tg1 Mattina si è già smarcato dalle parole di Orlando: "Questi vertici Pd avevano un dialogo con il M5s, che noi confidavamo esser condotto su una prospettiva di pari dignità e di rispetto reciproco. È stata fatta una scelta, hanno tentato di tutto pur di gettare via l'esperienza del M5S e l'agenda progressista che avevamo portato avanti per abbracciare una fantomatica agenda Draghi. È chiaro che il dialogo con loro è chiuso".
Quello che sia Letta che Orlando temono, seppur con approcci diversi, è che queste elezioni possano sancire la fine del Pd per come lo conosciamo. Se l'uscita dei renziani non ha provocato stravolgimenti significativi, ora invece per molti elettori alcune delle parole d'ordine programmatiche dei dem come "salario minimo, transizione ecologica e agenda progressista" sembrano più accostabili ad altri partiti, come quello di "vera sinistra" del M5S.
Orlando, come Letta, non vuole dare l'idea di aver già perso, ma ciò che si comprende dalle sue parole è che comunque il Pd non possa vincere. Al massimo puntare ad uno zero a zero strappato giocando di rimessa e grazie al supporto delle "riserve" Conte e Calenda (e Renzi). Altrimenti, il rischio vero saranno le purghe. Orlando, Franceschini e altri big hanno già blindato Letta, a parole, a prescindere dal risultato elettorale, ma nella realtà dei fatti il segretario è tutt'altro che intoccabile.
Ci saranno gli appuntamenti congressuali o peggio, nel caso di addio di Letta, le primarie. E allora sarà resa dei conti tra fazioni, quella di sinistra di Giuseppe Provenzano, quella riformista di Stefano Bonaccini, quelle "regionali" come quella di Nicola Zingaretti nel Lazio che visti gli accordi alla Pisana non ha mai mandato giù lo strappo con i grillini. La polarizzazione voluta da Letta, "o noi o la catastrofe", non piace a tutti, insomma.
Che fin da ora vorrebbero iniziare ad annacquare la prospettiva per poter avere qualche margine di manovra anche nel caso in cui le elezioni dovessero essere nefaste. Anche perché se vincesse la destra, viste le contingenze, l'unica catastrofe in arrivo non sarà quella che investirà il Paese, ma solo la segreteria del Pd.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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