Quel Paese lacerato Due etnie in lotta e l'Europa più lontana

Non solo la spaccatura tra pro e anti Erdogan e il nodo curdo. Sulla Turchia l'incubo sharia

Quel Paese lacerato Due etnie in lotta e l'Europa più lontana

Un Paese lacerato, senz'altro il più lacerato d'Europa (dato, e non concesso, di volerlo considerare europeo): questa è la Turchia di oggi, sopravvissuta la notte scorsa al quinto golpe militare del dopoguerra. Un Paese, per giunta, lacerato lungo linee diverse, che si intersecano perversamente tra loro.

Tra i sostenitori di Erdogan, che hanno risposto in massa al suo appello «telefonico» di scendere in piazza per difendere il regime e i suoi avversari - tra cui l'imam Gulen in esilio in America, subito accusato dal Sultano di essere l'ispiratore del tentato colpo di Stato -che lo considerano un dittatore affetto da delirio di onnipotenza che sta portando il Paese alla rovina. Tra coloro che vedono con favore la graduale islamizzazione della società, con la reintroduzione del velo per le donne, i divieti sempre più severi di consumare alcool e il possibile ritorno della sharia e coloro che si battono per la difesa dello Stato laico voluto da Atatürk, cioè buona parte dei giornalisti, degli intellettuali, dei magistrati e dei militari sopravvissuti alle epurazioni (senza dimenticare le donne di Smirne, che osano ancora uscire in strada senza velo e in minigonna).

Tra i cittadini di etnia turca, circa l'83% della popolazione di 76 milioni, e il 15% di Curdi che vivono prevalentemente nelle province sudorientali e, confortati anche dai recenti successi dei loro fratelli siriani e iracheni, pretendono l'autonomia. Tra la borghesia delle maggiori città, più moderna, più attaccata allo stato di diritto e oggi più preoccupata del cattivo andamento dell'economia, e le masse contadine, operaie e poco scolarizzate dell'Anatolia che più hanno beneficiato della politica sociale dell'Akp e sono indifferenti alle sue tendenze autoritarie. Tra i nuovi capi militari nominati da Erdogan e pronti ad assecondarne la politica e i quadri rimasti fedeli alla tradizione laica di Atatürk che, quasi certamente, hanno tentato il golpe con l'intento di prevenire una nuova «purga». Tra coloro che favorivano l'europeizzazione del Paese, spingono tuttora per l'adesione alla Ue, erano contenti della impostazione originaria della politica estera di Erdogan («nessun problema con i vicini») e coloro che hanno salutato con entusiasmo la sua nuova aggressività di matrice ottomana (parzialmente rientrata solo nelle ultime settimane) che lo ha portato a scontrarsi con Russia, Siria, Israele e Egitto e a adottare una politica molto ambigua nei confronti dell'Isis.

Tra coloro, infine, che oggi gioiscono per la vittoria di Erdogan e coloro che, più o meno segretamente, nelle ultime convulse ore si auguravano il successo dei golpisti. È anche a causa di tutte queste divisioni che nell'ultimo anno la Turchia ha subito ben 14 attentati terroristici, variamente attribuiti all'Isis, ai ribelli curdi del Pkk o addirittura ai servizi segreti nel quadro di una «strategia della tensione» destinata a rafforzare il presidente. E la spietata repressione già avviata non migliorerà certamente la situazione.

La vera tragedia è che, ancora pochi anni fa, le cose non stavano così. Nonostante la sua radicata ostilità verso lo Stato laico e la nomenklatura che ne era la custode, nei primi anni Erdogan non aveva fatto male: incoraggiato anche dall'Unione Europea, aveva tagliato le unghie ai militari che troppo spesso interferivano con la politica, aveva adottato numerose liberalizzazioni, si era adoperato con successo per lo sviluppo delle regioni più arretrate e aveva perfino cercato di fare la pace con il Pkk. Favorito anche dal buon andamento dell'economia mondiale, aveva più che raddoppiato il Pil e creato una apprezzabile rete di piccole e medie industrie anche nelle province interne. Sia pure a costo di rovinare le coste con insediamenti inguardabili, aveva dato grande impulso al turismo, attirando milioni di nordici, tedeschi, russi e perfino israeliani. L'islamizzazione che imponeva era, per così dire, strisciante, tollerata se non appoggiata dalla maggioranza della popolazione.

La situazione è cominciata a precipitare con la crisi economica mondiale del 2008, che ha colpito duramente la Turchia, e con le contemporanee, crescenti inclinazioni totalitarie di Erdogan, segnate da una serie di episodi scandalosi: un processo-farsa contro presunti nemici dello Stato, il soffocamento di uno scandalo finanziario in cui erano implicati vari familiari del presidente, l'abolizione graduale della libertà di stampa. Gli stranieri che visitano la cosmopolita Istanbul e le sue meraviglie, o vanno a villeggiare a Bodrum o a Marmaris, o intrattengono amichevoli rapporti con colti e amichevoli cittadini turchi non devono lasciarsi ingannare: la graduale «europeizzazione» della Turchia, avviata un secolo fa da Atatürk e che ha portato all'avvio dei negoziati per una sua adesione all'Ue è lungi dall'essere compiuta e di recente ha fatto anche passi indietro.

Inoltre, non dobbiamo mai dimenticare che lo stesso Erdogan, nel celebrare la presa di Costantinopoli da parte di Maometto II, disse che quell'evento rappresentava una storica vittoria nello scontro tra l'Islam e la Cristianità. E, incidentalmente, che un turco su dieci ha ammesso di avere simpatia per l'Isis.

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