Che un uomo come Luca Palamara, passato in una manciata di giorni dagli altari del potere alla polvere dell'incriminazione, abbandonato e misconosciuto da tutti quelli che gli baciavano la pantofola, perda alla fine equilibrio e lucidità, fa parte dell'animo umano. Così la reazione apparentemente furibonda di Palamara alla sua espulsione dall'Associazione nazionale magistrati, di cui era stato a lungo presidente e leader indiscusso, rischia di venire letta come un gesto scomposto. Perché in una serie di dichiarazioni Palamara tira in ballo con nomi e cognomi una sfilza di magistrati che finora sono scampati ai guai giudiziaria e disciplinari che lo stanno travolgendo: e che lui indica invece come collusi o comunque beneficiari del sistema di spartizione delle cariche giudiziarie da parte del Consiglio superiore della magistratura passato alle cronache come «sistema Palamara».
Ma se Palamara, come dice ieri qualcuno, «ha dato fuori di matto», bisogna riconoscere che in questa follia c'è del metodo. Infatti se si esaminano con attenzione i nomi che Palamara squaderna dopo avere promesso «adesso faccio i nomi», si scopre che il pm romano (attualmente sospeso dal servizio) fa solo e soltanto i nomi di magistrati che erano già comparsi negli articoli di stampa che riferivano il contenuto delle chat trovate sul suo telefono dal virus della Guardia di finanza.
C'è una sola eccezione: Eugenio Albamonte, una delle «toghe rosse» più in vista d'Italia, esponente dell'ala sinistra di Magistratura democratica. Ad Albamonte, Palamara rinfaccia due vicende: una sono gli incontri con Daniela Ferranti del Pd per scegliere il nuovo vicepresidente del Csm; l'altra, più scomoda, è il passaggio come segretario al Csm e poi il ritorno in Procura a Roma. «Quello di Albamonte è un altro bel capitolo», dice nell'intervista alla Verità, invitando a verificare come avvennero i passaggi. Ma il trattamento riservato ad Albamonte ha una spiegazione: il rientro della «toga rossa» in ruolo avvenne quando Palamara non faceva ancora parte del Csm. E quindi viene citato solo per dimostrare che anche prima di questi anni, i sistemi in voga non erano diversi.
Per il resto, Palamara picchia a destra e manca: ricorda che Bruno Di Marco, il presidente dei probiviri che lo hanno espulso, difendeva un magistrato finito in carcere, Giancarlo Longo, siciliano come lui; accusa un altro proboviro, il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, di avere ottenuto il suo posto grazie ai «meccanismi di cui oggi si parla». E poi ce n'è per tutti, da toghe di sinistra come Claudio Viazzi e Francesco Minisci, ex presidente dell'Anm, a giudici di centro come Giuliano Caputo, attuale segretario dell'associazione, o Bianca Ferramosca di Roma, o Alessandra Salvadori di Torino. Colleghi che vengono tirati in ballo da Palamara a volte con le buone, specificando che si tratta di gente di valore; a volte più brutalmente.
Un gesto scomposto? Mica tanto. Perché in realtà le rivelazioni di Palamara non rivelano niente. I nomi che detta ai taccuini sono gli stessi che le chat, compulsate in queste settimane da buona parte dei magistrati italiani, avevano già messo in luce. Possibile che non ci sia almeno un caso di nomina «aggiustata», un solo esempio di carriera trattata a forza di lusinghe e promesse, oltre a quelle intercettate dal trojan dell'indagine perugina? Ovviamente no, perché i buchi temporali dell'inchiesta sono enormi: le intercettazioni telefoniche partono il 3 marzo 2019, quando Palamara non fa più parte del Csm da sei mesi; il trojan risale ai messaggi scambiati da Palamara a partire dal 2018. Tutto il prima, i tre anni iniziali di Palamara al Csm, quelli di molte scelte decisive, sono rimasti fuori dall'inchiesta. Ci sono nomine cruciali, e manovre sottobanco: la più clamorosa di tutte, quella che nel 2017 fece inserire da una «manina» la norma che permetteva ai magistrati fuori ruolo di rientrare e venire subito promossi.
Se saltassero fuori i dialoghi di quegli anni, sulla magistratura si abbatterebbe un'altra bufera. Sono quelli i veri segreti che oggi Palamara custodisce ancora. E ieri manda un messaggio implicito ma chiaro: «di quelle cose per ora non parlo». Per ora.
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