Il paradosso di una nazione con l'ossessione per i confini. Di Obama il record di espulsi

Gli stranieri hanno reso grandi gli Usa. Che non li hanno mai accolti volentieri

Il paradosso di una nazione con l'ossessione per i confini. Di Obama il record di espulsi
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Donald Trump non conosce la mappa delle ferrovie del Messico, l'unica cosa che vede è la frontiera, tremila e passa chilometri di confine che sfiorano California, Arizona, Nuovo Messico e Texas. È lì che adesso sta inviando migliaia di soldati, il segno rodomontesco della sua battaglia contro chi entra senza permesso. È, dice lui, un'emergenza nazionale, da combattere laggiù dove finiscono gli States e porta a porta, chiesa per chiesa, senza lasciare quartiere e speranze. È nel carattere di Trump alzare la voce e mettere in piazza le contraddizioni di questa nazione troppo grande, che ha costruito il suo destino sugli immigrati, ma con le catene alle porte per selezionare gli ingressi. È la statua della libertà che guarda Ellis Island. È la differenza tra il sogno e la realtà. Trump incarna tutto questo e in qualche modo lo svela. Si può dire che grida quello che i suoi predecessori hanno fatto sottovoce, perché in America se si dà troppo retta alle chiacchiere, a quello che si dice, c'è il rischio di smarrirsi.

Il cattivo Trump, alla fine del suo primo quadriennio, ha cacciato più o meno gli stessi clandestini di Clinton, che nel 1996 firmò una legge che rese più facili le espulsioni, quasi a voler dimostrare che i democratici potevano essere duri quanto i repubblicani. Biden ha usato le misure sanitarie anti Covid dell'era Trump per organizzare retate clandestine ai clandestini. È il vecchio vizio di chi usa il trucco della faccia buona per gestire senza rimorsi il fenomeno migratorio. In pubblico si dice che non è un problema e sotto traccia si usa la ramazza. Sotto quale presidenza ci sono stati più rimpatri di migranti irregolari? Sorpresa. Il record appartiene a Barack Obama, tre milioni. Gli attivisti liberal lo avevano ribattezzato «Deporter in chief». Sulla carta Obama ha appoggiato una legge che donava una protezione temporanea per gli irregolari arrivati negli Stati Uniti da bambini. Il primo presidente afroamericano, figlio lui stesso dell'immigrazione, si è trovato a deportare più persone di qualsiasi altro nella storia americana. Obama, l'uomo del «Yes We Can», si è trovato intrappolato nel meccanismo implacabile della burocrazia dell'immigrazione, come un orologiaio costretto a far funzionare un ingranaggio che (forse) disapprova. È qui che emerge il paradosso più acuto: Trump, con tutta la sua retorica incendiaria sul muro e sulla tolleranza zero, ha finito per espellere molti meno immigrati di Obama. È come se l'America avesse bisogno di questo gioco delle parti: il presidente democratico che fa il duro per dimostrare di non essere debole, il presidente repubblicano che urla più di quanto colpisca.

La storia degli ultimi cento anni è un pendolo che oscilla tra accoglienza e rifiuto, tra pragmatismo e ideologia. Nel 1924, con il Johnson-Reed Act, l'America decise che alcuni erano più desiderabili di altri. Fu il trionfo delle quote etniche, della teoria che esistessero razze più compatibili con il sogno americano. Gli asiatici furono esclusi del tutto, come se il loro contributo alla costruzione della nazione fosse improvvisamente diventato invisibile. Il presidente in quegli anni era il repubblicano Calvin Coolidge, figlio di contadini che ridusse i sussidi ai contadini, isolazionista in politica estera, e famoso per una frase che racconta il senso della classe media: «L'affare principale del popolo americano è fare affari».

Lo sapeva anche Ronald Reagan che sanzionò i datori di lavoro che assumevano lavoratori senza documenti.

Se non lavori che ci stai a fare qui? Prima, però, concesse l'amnistia a tre milioni di clandestini. Il passato è passato. L'America perdona gli invisibili e allo stesso tempo chiude le frontiere. È l'eterno paradosso di questa terra di frontiera, dove i sogni non saranno mai gratis.

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