È cominciato il grande gioco del Quirinale. Ha aperto le danze il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ieri in una scuola di Roma – quasi a sorpresa - ha rivelato agli studenti di non essere intenzionato a proporsi per un mandato bis. Come era accaduto, invece, al suo predecessore Giorgio Napolitano. Il Capo dello Stato ha affermato: “Tra otto mesi il mio incarico termina. Come sapete, l’incarico di presidente della Repubblica dura sette anni: io sono vecchio, tra qualche mese potrò riposarmi”.
Un messaggio chiaro e netto, difficilmente equivocabile: Sergio Mattarella si è sfilato dalla corsa al Colle nonostante, nei mesi scorsi, il suo nome e l’eventualità di un doppio mandato venisse ritenuta, da più parti, qualcosa di più di una “semplice” indiscrezione. E lo ha fatto evocando ragioni importanti che travalicano le dinamiche politiche, su tutte il “peso” dell’età anagrafica a fronte di un impegno istituzionale che lo vedrebbe in prima linea per altri sette anni.
Il nome caldo per la successione di Mattarella è quello dell’attuale premier Mario Draghi, ipotesi sostenuta con forza dal centrodestra. Ma incombe, sullo scenario, l’eterna opzione al Quirinale rappresentata da Romano Prodi. Che, al Messaggero, ha dichiarato di essersi stupito alle dichiarazioni di Mattarella:“Mi è sembrato profondamente sincero parlando agli studenti. A questo punto non resta che sperare che possa cambiare opinione, se il prossimo anno gli fosse chiesto da un larghissimo schieramento parlamentare di restare. Ma oggi, purtroppo, sono molto meno fiducioso di ieri”. Il Professore, dunque, almeno formalmente sosterebbe la conferma dell’attuale Capo dello Stato e, nel frattempo, ha allontanato da sé ogni indiscrezione: “Io sono più vecchio di Mattarella e ho le stesse ragioni di Mattarella: non si assume una carica che dura sette anni quando se ne hanno 82 e mezzo che tendono agli 83. Lo ritengo un serio problema di coscienza. E poi fare il capo dello Stato non è il mio mestiere: a me piaceva fare il presidente del Consiglio, gestire il governo. Ho sempre avuto poca passione per le architetture istituzionali”.
Se il Professore ha parlato sinceramente oppure se invece ha fatto della “pretattica” per dribblare, almeno per il momento, le prevedibilissime schermaglie parlamentari pre-Quirinale, lo potrà dire solo il tempo. Intanto va ricordato come il suo tentativo di scalata al Colle, nell’aprile del 2013, si concluse in una disfatta che, a valanga, travolse il Partito democratico guidato da Pierluigi Bersani e spalancò le porte all’astro (allora) nascente di Matteo Renzi.
Gli sarebbero bastati 504 voti: il centrodestra, per protesta, fece Aventino, abbandonando l’aula al momento del voto: la prima volta nella storia repubblicana durante l’elezione del Capo dello Stato. Un parlamentare su quattro dell’asse di centrosinistra, però, “tradì” Romano Prodi che, alla fine della consultazione, registrò un clamoroso flop ottenendo la miseria di 395 voti mentre il suo competitor di quella tornata, il giurista Stefano Rodotà sostenuto da M5s superò le 200 preferenze.
Il Professore, ferito, si ritirò dalla corsa non senza veleni: “Chi mi ha portato qui si assuma le sue responsabilità”.E infatti Bersani si dimise, Epifani traghettò il Pd fino alle primarie di ottobre 2013 in cui Matteo Renzi – sfondando il 67 per cento delle preferenze - sbaragliò la concorrenza di Gianni Cuperlo e Pippo Civati.
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