Nel magma che imperversa in casa Pd il ministro della Cultura, Dario Franceschini, a torto o a ragione viene visto come uno degli strateghi più influenti. Qualcuno, usando il gergo calcistico, lo paragona a un "regista", uno in grado di smistare palloni e creare azioni pericolose. Può essere interessante, dunque, vedere come la pensa sull'ultima crisi che sta attraversando il suo partito. Prima di tutto Franceschini non vuol neanche sentir parlare di scissioni: "Se ci capiterà questa disgrazia - dice in un'intervista a Repubblica - cosa scriveranno tra 10 anni gli storici? E' successo perché alcuni volevano fare il congresso a settembre e altri ad aprile? Sarebbe incomprensibile. Ma per il nostro popolo lo è anche ora".
Franceschini un'idea ce l'ha. E possiamo definirla una proposta di mediazione. Rinviare il congresso (con le primarie) a maggio e poi concentrarsi sulla campagna elettorale per le amministrative. Contemporaneamente alla presentazione dei candidati, discutere anche linea del partito e programma. L'unica cosa è restare uniti, almeno per ora. Perché per il ministro della Cultura "si esce da un partito se non se ne condividono più le idee. Se invece non ci si riconosce nel segretario, lo si sfida al congresso. Le scissioni che ho conosciuto io hanno sempre seguito queste regole".
Per spiegare meglio il proprio ragionamento cita alcuni esempi: "La Dc, o meglio il Ppi, si divise per una scelta di campo strategica, culturale e politica. Alcuni andarono con Berlusconi. Altri costruirono il centrosinistra. E anche la scissione del Pci fu tra chi voleva creare una sinistra di governo, il Pds, e chi puntava a rimanere una sinistra alternativa".
Affrontare oggi una scissione, in casa Pd, per Francescini sarebbe incomprensibile: "Il partito non è proprietà di alcuni capi che litigano. Stiamo discutendo di una forza politica che appartiene a milioni di persone, non ai leader. Persone che hanno faticato a sciogliersi in un soggetto unico, mettendo da parte storie gloriose e centenarie. E che oggi dicono: se è la casa di tutti, litighiamo, scontriamoci, ma senza abbandonarla o distruggerla".
Ma Renzi, visto da alcuni come un "uomo solo al comando", può convivere con una parte di partito che non lo sopporta proprio? Franceschini la vede così: "Il congresso serve a questo. Chi vince non deve prendere tutto, non occupa tutto lo spazio. Ascolta le ragioni di chi ha perso e si fa carico della sintesi condivisa". Quanto alla fronda dei cosiddetti bersaniani, il ministro mette le mani avanti: "C'è sempre stato l'atteggiamento, da parte di quelli che hanno perso nel 2013, di considerare Renzi un usurpatore. Ho visto, e non lo dimentico, un pezzo del Pd votare no alla fiducia posta dal governo guidato dal segretario del partito. Ho visto pochissima voglia di riconoscere i risultati dell'esecutivo. Ho visto infine alcuni del Pd votare No al referendum". Insomma, sembra indicare Franceschini, se il segretario deve autolimitarsi e rispettare le altre anome del partito, anche queste ultime devono rispettare il segretario. Altrimenti non se ne esce.
Alla fine l'unico collante però sembra quello elettorale: "Visto che ci sono tre poli equivalenti, noi, Grillo e la destra, se il Pd si divide è più facile che le elezioni le vincano o i 5stelle o Berlusconi e Salvini. L'onda populista non è solo Trump o la Le Pen.
Esiste anche in Italia e non è di destra, è trasversale. Di fronte a questo pericolo occorre stare insieme. Invece il morbo della divisione si riaffaccia. Ha già fatto male all'Ulivo, all'Unione e in certi passaggi anche al Pd".
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