«È una figura che proveniva dall'esterno del partito, che ha un profilo vicino ai liberal americani e assai distante da quello dei leader del movimento operaio della sinistra italiana». Fausto Bertinotti, leader storico di Rifondazione Comunista, descrive così la nuova segretaria del Pd, Elly Schlein, come una donna appartenente a «una sinistra totalmente diversa dalla mia».
Lei pensa che un partito di sinistra come il Pd dovrebbe puntare più sulle tematiche del lavoro?
«No, io penso proprio a un'altra sinistra. Dopo la grande sconfitta bisognerebbe pensare a due sinistre, proprio come nella tradizione del grande movimento operaio europeo: una sinistra riformista e una rivoluzionaria. Io lavorerei a una sinistra più simile alla France insoumise di Mélenchon, mentre la Schlein guarda legittimamente alla sinistra liberal americana sia sul terreno dei diritti sia su una linea di conciliazione tra capitale e lavoro. Una forza politica anti-capitalistica, invece, ancora non esiste ed è un capitolo a parte che non è né contiguo né assimilabile alle altre sinistre. Podemos e France insoumise hanno fatto un discorso diverso e non hanno cercato preliminarmente una qualche alleanza politica».
È una sinistra totalmente diversa da quella che abbiamo in Italia
«Questo tipo di sinistra, attualmente, in Italia, non c'è. Pd e M5S, invece, sono lontanissime da costituire una rivitalizzazione della politica, ma sono espressione di una crisi e non di una risposta, tant'è vero che nel nostro Paese vota un italiano su due».
Secondo lei, corriamo il rischio di ritrovarci un Pd troppo populista?
«Il populismo è lo scontro tra il basso e l'alto, tra il popolo e le élite. Anche il M5s ha smesso di considerare una priorità questa dialettica di contrasto. Francamente, in Italia, non vi è traccia di un conflitto sociale come quello che si è visto in Francia con le proteste contro la riforma delle pensioni».
Non crede, dunque, che la Schlein punti eccessivamente sui diritti civili più che su quelli sociali?
«Quella, però, in quanto rappresentante della componente liberal, è la sua ragion d'essere. I ceti popolari avrebbero bisogno di ben altro. Il Partito Democratico non è la continuità del Partito Comunista, ma è una costruzione che avviene fuori da quella storia. Dire che ci vorrebbe anche la lotta di classe è improprio. Certo, che ci vorrebbe. Ma perché lo chiedete a loro che hanno un impianto diverso da questo? Il successo della Schlein è più significativo per le domande che poneva che per le risposte. È un qualcosa che si è manifestato con i movimenti giovanili, con il Festival di Sanremo o con Mare Fuori».
Non cambierebbe nulla, quindi, se il Pd cambiasse nome in Partito Democratico del Lavoro?
«No, come dicevano i latini, sono consequentia rerum, ma quando lo sono davvero. Non ci si può inventare partito del lavoro senza un'idea di conflitto tra capitale e lavoro. Mélenchon ha un'idea di lavoro e di stile di vita».
Ma il centrosinistra italiano su quali temi si può ritrovare?
«Io penso che il centrosinistra sia finito e che non sia stata la risposta alla crisi italiana, ma bensì sia stata proprio la sua crisi. Nel centrosinistra sono stati incorporati tutti gli elementi che ne hanno prodotto la crisi: il primato delle alleanze sui contenuti, un'idea politicista del conflitto tra destra e sinistra, l'adesione alla centralità del governo e la trasformazione della lotta politica in una competizione elettorale fatta per vincere, la mancata scelta di connessione con i grandi movimenti come quello No Global e il progressivo abbandono della lotta di classe.
Il centrosinistra non è, per le forze d'opposizione, la terra del ritorno. L'opposizione a un governo di destra-destra va ricostruita su un terreno molto più radicale. Penso che vi sia una scarsità più che un eccesso di opposizione».
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