Un chiodo dopo l'altro, la bara delle libertà civili di Hong Kong viene sigillata. Pechino non fa che ripetere che Hong Kong è ormai parte integrante della Repubblica popolare cinese, e questo implica condividere le caratteristiche del regime comunista: la prima delle quali, come è noto ma come troppi anche in Italia preferiscono dimenticare, consiste nella negazione dei diritti dell'opposizione. Tappare la bocca a chi dissente passa anche attraverso la privazione della libertà fisica: tradotto in fatti, gli oppositori finiscono in galera. I tribunali di Hong Kong lavorano alacremente e ieri c'è stata un'infornata di condanne «eccellenti»: sette esponenti del movimento democratico tutti ultrasessantenni - sono stati dichiarati colpevoli di organizzazione e partecipazione ad assemblee illegali, in particolare a quella del 18 agosto 2019 durante la grande ondata di proteste contro il potere cinese. Altri due attivisti si erano già dichiarati colpevoli. Rischiano tutti dai 5 ai 10 anni di carcere.
Tra i condannati, che sono stati temporaneamente rilasciati su cauzione dopo aver consegnato i documenti validi per l'espatrio, figurano due personaggi di spicco, due veterani della lotta per la democrazia a Hong Kong: l'82enne avvocato Martin Lee (fondatore di un partito di opposizione che a suo tempo Pechino aveva fatto collaborare alla stesura della Costituzione della ex colonia britannica) e il magnate dei media, nonché fondatore del popolare tabloid Apple Daily, Jimmy Lai, ultrasettantenne che era da tempo in prigione per altre accuse connesse con la sua aperta e coraggiosa sfida al regime comunista. Nel gruppo dei condannati ci sono anche un altro avvocato, la settantatreenne Margaret Ng, e un attivista conosciuto con il soprannome di «Lunghi capelli», Leung Kwok-hung, 64 anni, che entrando in tribunale ha gridato: «Un'assemblea pacifica non è reato». Con l'eccezione di Lai, rispedito in cella, tutti dovranno ripresentarsi alla sbarra il prossimo 16 aprile per ricevere un verdetto che appare già scritto, lo stesso che ha fatto già scomparire in carcere tanti attivisti, il più famoso dei quali è il giovane Joshua Wong.
Il più degno di nota tra i sette condotti alla sbarra ieri è però Lee Cheuk-yan. Ex deputato conosciuto per il suo ampio seguito tra i lavoratori e perciò particolarmente inviso al potere comunista che pretende di rappresentarli tutti per definizione -, Lee ha accolto la comunicazione della condanna con toni di sfida, così come a suo tempo aveva fatto Wong. Rivolto ai giornalisti, ha detto che lui e i suoi compagni sono «molto orgogliosi, anche se per questo ci aspetta il carcere». E ha aggiunto che «continueremo a marciare, non importa cosa ci attende in futuro». Gli argomenti e il linguaggio utilizzati dal giudice distrettuale Amanda Woodcock che a dispetto del nome è cinese lasciano pochi dubbi al riguardo. Woodcock ha chiarito di essere intenzionata a chiedere il massimo della pena e ha precisato che il fatto che la marcia del 18 agosto 2019 fosse pacifica non costituisce un'attenuante: «Non può essere giusto ha scritto nella motivazione - per un trasgressore sostenere che anche se il suo atto non era autorizzato, ma in definitiva senza violenza, non dovrebbe essere arrestato, perseguito o condannato». In questo senso, davvero Hong Kong è ormai parte integrante della Cina.
Così stando le cose, suonano retoriche le parole del segretario di Stato Usa Antony Blinken, che ha promesso che Washington intende continuare a
tutelare il popolo di Hong Kong contro le azioni di Pechino. La triste verità è che Xi Jinping ha deciso di seppellire le libertà civili della città e potrà farlo impunemente con la tacita approvazione di molti occidentali.
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