Ieri a Roma si è aperta la ventiquattresima edizione dell'evento organizzato dalla Fondazione Marisa Belisario che si intitola «Donne, Potere, Economia». Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha inviato un messaggio che è stato molto apprezzato da Lella Golfo, ex parlamentare, da sempre presidente della Fondazione. Nel messaggio Giorgia Meloni insiste soprattutto sull'importanza della libertà piena della donna e della sua capacità di scelta del proprio destino.
Presidente Lella Golfo, lei pensa che il potere, e in particolare il potere delle donne, passi dall'economia?
«Sicuramente sì. Passa dall'economia e dalla politica. Se le donne non entrano nella stanza dei bottoni, come diceva Nenni, non ottengono niente. Bisogna ottenere le leve del comando. Soprattutto dove c'è l'economia. L'economia è potere».
Lei è l'autrice di una legge che ormai ha una quindicina di anni e che impone una quota femminile nei consigli di amministrazione delle società. Questa legge ha portato dei risultati?
«Quando io l'ho presenta, nel 2011, le donne nei Consigli di amministrazione erano il 4,6 per cento (177 donne contro 2700 maschi). Oggi siamo la terza potenza in Europa e la quinta al mondo per parità di genere nelle aziende. Le donne sono più di 1500. Ecco il risultato. Però...».
Però?
«Rimangono soprattutto consiglieri indipendenti, con ruoli non apicali. Gli amministratori delegati donna si contano sulle dita di una mano sola. Dopo Marisa Belisario sono state tre le donne amministratore delegate. Eppure ci sono donne bravissime che sono tenute in seconda fila. Sebbene siano più brave degli uomini che comandano. Il gap c'è ancora».
Quindi quote?
«Io non sono una fan delle quote. Io credo che la mia legge sia stata come un antibiotico al maschilismo di questa società. E l'antibiotico ha funzionato. Banca d'Italia, quando passò la legge, diagnosticò che sarebbero serviti 50 anni per avere il 30 per cento delle donne nei consigli di amministrazione. Ci abbiamo impiegato molto, molto meno: qualche volta le leggi servono».
E creano equità?
«Oggi la parità di genere, per un Paese moderno, non è più una questione di equità, o di diritti: è una questione di crescita. La parità serve a dare impulso allo sviluppo. Anche al Pil».
Quindi bene le quote. Però le quote hanno il difetto di imporre le donne per ragioni di principio e non per merito individuale
«All'inizio era così. Le quote erano subite. Ora le aziende cercano le donne. Perché sanno che sono dotate, che vincono la gara del merito».
Le donne sono più brave degli uomini?
«Sì, sono più brave. Portano idee, concetti che prima non c'erano».
Chi era Marisa Belisario, la donna a cui lei ha intitolato la Fondazione. Quanto ha influito nella battaglia delle donne?
«Io ero giovane quando Marisa Belisario è morta. Non la conoscevo personalmente. Però era per me un punto di riferimento. E quando è morta ho vissuto questo avvenimento come un dramma. Lei era una donna celebre, di successo, che però è rimasta sempre se stessa. Ci ha lasciato tante cose sulle quali costruire».
Lei è femminista?
«Bah. Guardi. Sono stata femminista finché era necessario essere femministe. Poi il femminismo si è fermato. Non è riuscito a passare dalla protesta alle cose concrete. Allora ho detto basta: prendo un'altra strada, voglio costruire, non mi basta parlare e gridare».
Il Partito socialista di Craxi ebbe un ruolo nel miglioramento della condizione delle donne?
«L'idea delle quote entrò per prima nel Psi. Congresso di Palermo, 1981. Le donne pretesero le quote dentro il partito. E le ottennero. Il Psi di Craxi è stato antesignano».
Che giudizio dà su Giorgia Meloni?
«Gli diedi il
premio Belisario quando era ministro della Gioventù. Tanti anni fa. La mia non è una stima recente. È una donna che ha coraggio, una donna che studia, una donna che sa guardare le cose come sono. È un esempio per i giovani».
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