Premesso che Fabrizio Corona di per sé non è null'altro che il protagonista di un romanzetto kitsch autoprodotto che unisce cinepanettone, pulp di bassa lega e poliziottesco, la sua vicenda appassiona perché è diventata simbolo sociale e perfino morale. Giudiziariamente, la trama si riassume così: un gentiluomo colpevole di estorsione finisce poi per collezionare reati e ulteriori condanne per 13 anni e fischia, tra denaro falso, fughe, minacce, false fatturazioni, frode fiscale, bancarotta, corruzione... Manca l'abigeato, per ora.
Sconta un po' di galera, poi - per curare dipendenza dalla coca e disturbi psichiatrici e «reinserirsi» nella società - gli vengono accordati periodi di pena alternativa. In comunità, in clinica, ai domiciliari. Tante possibilità di redenzione e un guinzaglio (troppo) lungo, che a tanti altri detenuti è mai stato accordato. La contropartita è fatta di regole e divieti, ma Corona decide puntualmente di sputare in faccia all'autorità e alla giustizia che si affanna a dargli chance. Ignora ogni limitazione, sentendosi al di sopra della legge, continuando a recitare il suo patetico (e patologico) ruolo da duro e ribelle, istigato a suon di cachet da chi lo sfrutta mediaticamente e fomenta il suo cupio dissolvi. Si allontana dal domicilio, minaccia sui social, organizza feste, va ospite in tv. Se ne approfitta. E chi lo sorveglia glielo lascia fare, lo lascia autodistruggersi.
Il dubbio è semplice: può la legge, uguale per tutti, chiudere sempre gli occhi perché «poverino sta male»? È sufficiente che Corona non abbia «mai fatto del male» (anche se le vittime dei ricatti e delle minacce non la pensano così) per consentirgli l'impunità perenne? Davvero si può ancora parlare di «accanimento giudiziario» dopo tutte le aperture di credito gettate al vento?
Forse la risposta la danno silenziosamente quelli che lo hanno difeso, mostrandogli la pietà che si deve a ogni uomo che sbaglia e cade. In molti hanno visto in lui una vittima di se stesso da salvare, a cui garantire una riabilitazione. Oggi, i suoi difensori sono sempre meno, perché quella pietà umana (lo sa bene don Mazzi, definito «buffone e nullità» dopo averlo salvato) è stata tradita e dalla pietà si è passati alla pena.
La pena che si prova nel vederlo blaterare dopo aver finto un suicidio da avanspettacolo, mentre insulta il mondo. E la pena che ora è inevitabile fargli scontare, in carcere o in clinica, poco importa. Lo si deve ai cittadini che rispettano le regole e a quei detenuti che ce la mettono tutta per rigare dritto.
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