Quando la settimana scorsa vennero rese note le registrazioni dei colloqui del giudice Amedeo Franco con Silvio Berlusconi, sul povero Franco - ormai defunto - l'organo di Magistratura democratica Questione Giustizia lanciò accuse di ogni tipo, tra cui quella di avere parlato con il Cavaliere perché «amareggiato» per un avviso di garanzia (avviso che in realtà gli sarebbe arrivato solo tre anni dopo); e di avere comunque commesso un reato, violando il segreto della camera di consiglio.
Ma nei giorni successivi, mentre il linciaggio post mortem di Franco prosegue, a fornire la loro versione su quanto accaduto nel chiuso della camera di consiglio sono altri due membri del collegio. E questi sono ben vivi. Uno è il giudice che lo presiedeva, Antonio Esposito, con una lunga intervista di ieri a Repubblica, in cui racconta con dovizia di particolari l'andamento della discussione. Prima ancora di lui, a offrire uno spaccato dettagliato della camera di consiglio era stato il giudice Claudio D'Isa, con un'intervista al Fatto quotidiano. Se Franco aveva commesso un reato, lo hanno commesso anche loro: che, essendo vivi, possono essere perseguiti penalmente. Ma non risulta che alcuna procura abbia spiccato nei loro confronti avvisi di garanzia.
Nei loro racconti, peraltro, i due si contraddicono: non quando danno entrambi una visione pacifica, quasi idilliaca, dell'andamento della discussione, ma quando spiegano come mai, contro ogni prassi, la sentenza venne firmata da tutti e cinque. D'Isa sostiene che si decise di scrivere e firmare tutti insieme «siccome la sezione feriale si sarebbe sciolta di lì a poco»: spiegazione traballante visto che anche a sezione sciolta Franco, se davvero era d'accordo, avrebbe potuto scrivere tutto da solo. E infatti a questa fretta da scioglimento Esposito nella sua intervista non fa alcun cenno.
Ma quel che conta, per entrambi, è delegittimare Franco. Esposito lo fa brutalmente, definendo «inqualificabile e inquietante» il comportamento del collega scomparso. D'Isa più sottilmente, dicendo «non ho nemmeno un sospetto e poi farei un'offesa alla sua memoria». Ma a colmare le lacune hanno provveduto giornali e siti che in questi giorni hanno - sulla scia di Questione giustizia - di collegare le confidenze di Franco a Berlusconi con il procedimento penale a suo carico. Il «non detto» è: il giudice cercava protezioni, e per questo andò a dire all'ex premier quello che lui voleva sentirsi dire.
Peccato che nel momento in cui Franco chiede a Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, di poter incontrare Berlusconi l'avviso di garanzia sia di là da venire, e che lo stesso Franco sia un giudice stimato e riverito: tanto che due anni dopo, nel 2016, il Csm lo nominerà presidente di sezione in Cassazione. A mezza voce, c'è allora chi ipotizza che Franco volesse ingraziarsi il leader azzurro in vista della nomina: ma anche questo contrasta con le date.
Insomma, alla fine nessun movente credibile viene ipotizzato per la scelta di Franco di incontrare Berlusconi oltre a quello che lui stesso ripetutamente indica: sgravarsi di un peso, liberarsi la coscienza dalla colpa di avere firmato una sentenza in cui non credeva e che considerava ingiusta.
Di questo disagio, sono emersi in questi giorni numerosi riscontri: fino al più esplicito, l'intervista del Tg5 ai due figli del giudice Paolo Glinni. Ma di questo non si parla. È più facile, come sempre, infangare chi esce allo scoperto.
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