Prodi si arruola nel Vietnam degli ex premier

Roma Il potere corrompe, il potere fagocita l'animo e obnubila la mente, logora chi ce l'ha e (pure) chi l'ha perduto. Ma quel che succede in Italia va ben oltre, supera lo steccato di generazioni e rottamazioni, precipita nel suicidio collettivo di servi e padroni, padroni come servi, nell'«epoca terribile in cui degli idioti governano dei ciechi» (lo diagnosticava già il Bardo).

Negli scampoli di quel tempo sospeso prima della battaglia, allora, s'annida l'insidiosa vanità delle frasi vane. Reprimende senza senso perché finite oltre il tempo della decenza; giungla inestricabile dalla quale dovrebbe spuntare il Vietnam parlamentare che affosserà l'insano potere del governo. Ma che, per ora, sembra piuttosto volgere contro gli stessi vietcong ribelli del Pd. E bisognerà pur dare ragione a Marco Travaglio, laddove scrive (ieri) che «appena parla D'Alema, tutti capiscono perché c'è Renzi». Per l'ex premier che non ne ha indovinata una, la (giusta) ribellione a chi «sputa sul passato per fingere d'essere grandi» (Renzi) s'è rovesciata così in una Caporetto nella quale persino un portaborse dei tempi d'oro, l'oramai acclamato senatore Nicola Latorre, giganteggia contro l'uomo che lo tirò fuori dalle secche della politica minore, spesso assai opaca, del Brindisino. «Massimo ha steccato», dice più o meno l'Ingratissimo e stavolta ha pure ragione a prendersela con l'ex Baffetto benefattore. Il quale D'Alema, sottolinea a sua volta Fabrizio Cicchitto, «non si capisce bene perché, pur di polemizzare con Renzi, assuma su di sé gli onori e gli oneri dell'anti-berlusconismo». Una stagione nella quale gli spunti dalemiani cercarono piuttosto di «superare l'antiberlusconismo viscerale, che era di altri: Prodi, Veltroni, il partito dei giudici, Santoro, Micromega ...».

E in questa polemica dal sapore postumo, accesa da una frase imprudente (di quella tipica imprudenza volontaria, ma anche improvvida, del premier Renzi), ecco comparire alla presentazione d'un libro il rivale di sempre, sia di D'Alema che di Berlusconi: Romano Prodi. A sua volta orgoglioso di rivendicare che se «Renzi parla di vent'anni di stallo tra berlusconismo e antiberlusconismo, allora 'l s'è sbaiè », si è sbagliato, detto in dialetto reggiano. Pronto, Romano, a celebrare i fasti (?) dei propri governi pur di dileggiare i tempi moderni. Con appigli nient'affatto peregrini, visto che «oggi non mi pare il momento delle riflessioni serene - ha detto Prodi -, ci si muove per contrapposizioni... Così non riusciremo a fare una riforma seria». Le promesse di Matteo sulle tasse sono un'arma a doppio taglio, aggiunge, «si promette tutto a tutti», ma alle «analisi politiche serie d'un tempo», oggi «se c'è chi ti impedisce l'analisi è Twitter». Frase che esprime bene il disprezzo per il giovane rampante che ha discettato di tasse nelle 140 battute dei cinguettii social .

Un vero tiro al piccione - relegato però al baraccone da fiera, privo perciò di qualsiasi effetto se non quello di uno striminzito premio in peluche - che condanna piuttosto la foga di questi ex inquilini di Palazzo Chigi ancora così pieni di rancore per l'Usurpatore. Cui non poteva certo sottrarsi il rivale più giovane, un postumo Enrico Letta che proprio l'altro giorno, inaugurando da rettore al Psia di Parigi i corsi di Affari internazionali, s'è soffermato sul valore delle politiche di lungo respiro, perché «il corto termine è il vero virus distruttore delle nostre società».

Come non cogliere, la punta di veleno verso i leader del «tutto-e-subito»? Epperò, magari fosse. Perché invece ormai siamo vittime rassegnate del «niente-subito-e-niente-mai», foglie esposte ma indifferenti alle tormente del potere.

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