L'ora «x» scoccherà tra sette giorni esatti, quando i leader dei Ventisette si ritroveranno a Bruxelles per il Consiglio europeo da cui dovrebbero uscire i nomi dei cosiddetti top jobs delle istituzioni comunitarie (presidenza di Commissione, Consiglio e Parlamento e Alto rappresentante per gli Affari esteri). Una partita che fino a pochi giorni fa sembrava in discesa, ma che si è andata complicando dopo il vertice informale di lunedì scorso e il muro contro muro tra Francia e Germania da una parte e Italia dall'altra.
Ora, però, il tempo stringe. E, anche se siamo ancora alla tattica, le trattative sono riprese serrate. Con Emmanuel Macron e Olaf Scholz che insistono nel voler chiudere rapidamente, forti dei numeri della nuova Eurocamera. Che, va detto, impongono di ripartire dalla «maggioranza Ursula» per il via libera al presidente della Commissione Ue. Oggi, però, il pallottoliere è piuttosto avaro rispetto al 2019: Ppe, S&D e Renew contano «solo» 404 seggi, sufficienti sì a scavallare il quorum di 361 ma non abbastanza per stare tranquilli. Anzi. Al Parlamento europeo, infatti, il numero dei «franchi tiratori» è sempre molto alto, basti pensare che cinque anni fa Ursula von der Leyen fu eletta per nove voti e solo grazie al sostegno «esterno» dei polacchi di Pis e del M5s. In quell'occasione si ipotizzarono tra 80 e 90 voti in dissenso.
Giorgia Meloni lo sa bene. Ed è la ragione per cui lunedì si è messa di traverso, facendo presente che oltre ai numeri c'è la politica. E il risultato delle elezioni europee è chiaro: sconfitta dei liberali di Renew e dei Verdi, leggero arretramento dei socialisti di S&D, avanzata della destra e vittoria dei popolari del Ppe. Con un di più: sono proprio Macron e Scholz i due grandi sconfitti. Di qui, la richiesta di Meloni di sedersi a un tavolo e il rifiuto di un pacchetto di nomine che le è stato solo comunicato e che la premier ha definito «pre-confezionato». Sul punto, ieri è tornato anche il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti. Che al tavolo del Consiglio dei governatori del Mes a Lussemburgo ha protestato per l'isolamento dell'Italia nella partita dei top jobs. «Un trattamento - ha detto - assolutamente sbagliato e pregiudizievole verso un Paese fondatore di primaria importanza».
Intanto, si rincorrono i rumors sulle trattative. E pare che qualcuno abbia fatto presente alla delegazione italiana che se salta il «pacchetto» (von der Leyen alla Commissione, Antonio Costa al Consiglio, Roberta Metsola al Parlamento e Kaja Kallas come Alto Rappresentante) si aprirebbero scenari alternativi. Con i socialisti che al posto del portoghese Costa potrebbero indicare l'ex segretario del Pd Enrico Letta (indiscrezione uscita alcuni giorni fa su La Stampa). Questo, però, potrebbe anche comportare un commissario di minor peso per un'Italia già forte del presidente del Consiglio Ue. Per la gioia di Macron e Scholz, visto che il commissario è espressione diretta del governo italiano. Così fosse, Meloni non ha intenzione di mettersi di traverso e sarebbe ben contenta di avere un italiano ai vertici dell'Ue (tra i due, peraltro, c'è un rapporto consolidato). Ma ha già messo in chiaro che quella sarebbe una nomina in quota socialisti e che non potrebbe in alcun modo avere conseguenze sul portafoglio del commissario italiano, espressione di uno dei pochi esecutivi che sono usciti vincitori dalle elezioni.
Nel frattempo, dopo aver scavalcato Renew, Ecr consolida la posizione di terzo gruppo dell'Eurocamera. Come si era capito da tempo, però, non entrerà nei conservatori il Fidesz dell'ungherese Viktor Orbán. C'è un tema di incompatibilità con altre delegazioni, tra cui i rumeni di Aur. E poi c'è la posizione su Kiev, su cui Meloni non transige.
«Una linea rossa», la definisce il co-presidente del gruppo Ecr Nicola Procaccini. Non è un caso che Aur, come altre delegazioni appena entrate nei conservatori, abbiano preventivamente sottoscritto una dichiarazione pro Ucraina.
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