Affermare l'esistenza di una cosa negandone pervicacemente la stessa esistenza. Un piccolo capolavoro. E Michele Serra, penna brillante e ustoria di Repubblica, ci è riuscito ieri in una lunga intervista alla Stampa. Tema del colloquio: i radical chic. Svolgimento: i radical chic non esistono, sono un nemico immaginario che serve alla destra, perché soffre di inferiority complex. Avete mai letto qualcosa di più radical chic? No, a meno che non abbiate letto la sopraccitata intervista. Che poi, già nella prognosi altrui di inferiority complex, c'è la diagnosi della propria: giacché fa molto più chic (anche senza radical) parlare in inglese e non nel volgarissimo e plebeo italiano. Diteci se questo non è - linguisticamente - un complesso di inferiorità. Ma, se avevate dei dubbi sulla sopravvivenza di sparuti gruppi di appartenenti alla categoria coniata da Tom Wolfe 1970, leggetevi bene Serra e ogni dubbio si scioglierà come una zolletta di zucchero in una tazzina di caffè.
Che poi chi sarebbero questi radical chic? Per far parte del club «basta saper mangiare con le posate e rispettare il congiuntivo», dice, tra il serio e il faceto il giornalista, scoccando un'altra radicalchiccata, per poi concludere l'affresco con una pennellata di qualunquismo di sinistra di moda qualche anno fa: «Non credo che l'imprenditore leghista, quando osserva dal suo Suv i migranti in bicicletta, sia sopraffatto dal senso di solidarietà». Non lo sappiamo nemmeno noi. Non sappiamo neppure se esista il fantomatico imprenditore, se abbia il Suv e neppure se voti la Lega. Sappiamo solo che siamo sopraffatti, sì, ma dai luoghi comuni.
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