Ma quanti fascisti c'erano, il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna? Per quale motivo esponenti di gruppi diversi, lontani e spesso contrapposti tra di loro, avrebbero dovuto darsi appuntamento per realizzare una strage che - per le sue modalità operative - aveva bisogno dell'opera di una o due persone? Nel diluvio di polemiche seguito alle dichiarazioni pubbliche di Marcello De Angelis, portavoce del presidente del Lazio Francesco Rocca, alcune domande si sono perse per strada. Col risultato che a De Angelis è stato fatto dire ciò che non ha detto, ovvero di avere negato una matrice fascista della strage. Mentre invece basta leggere una parte accessibile delle carte processuali per capire che sostenere, come ha fatto De Angelis, l'innocenza di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, capi dei Nuclei armati rivoluzionari, i primi a venire condannati come esecutori dell'attentato, non significa affatto negare l'origine del delitto nel mondo dell'ultradestra. Anzi: l'ipotesi che Fioravanti e Mambro siano innocenti rende ancora più complessa e inquietante la rete di complicità istituzionali che si staglia dietro la strage, evocata come spesso accade - ma in questo caso a ragione - dai familiari delle vittime. Incastrando Giusva e la sua compagna si è spostato per decenni il tiro dell'inchiesta: non dalle improbabili piste palestinesi evocate qua e là, ma dalla caccia ai veri autori e mandanti. Che solo due anni fa prendono forma.
Gennaio 2021. Chiamata a valutare la nuova pista sulla strage alla stazione, il giudice preliminare bolognese Francesca Zavaglia deve addentrarsi in quintali di fogli, documenti, analisi in cui la Procura generale del capoluogo emiliano espone gli elementi per cui chiede la cattura dell'ex estremista nero Paolo Bellini, accusandolo di avere fatto parte della squadra responsabile della bomba nella sala d'aspetto di seconda classe. La Zavaglia respinge la richiesta di arrestare Bellini, solo perché non vede pericolo di fuga o di altri reati. Ma scrive che le prove contro di lui sono inequivocabili. Infatti poi Bellini, che all'epoca della strage aveva 27 anni, viene condannato all'ergastolo, ed oggi è in attesa dell'appello.
Le motivazioni della condanna sono oltre duemila pagine, ed è facile perdervisi. L'ordinanza della Zavaglia è di 130 dense pagine, e dalla sua lettura si esce con due impressioni nette. La prima è che le prove a carico di Bellini sono incomparabilmente più nette degli elementi che portarono alla condanna di Fioravanti e Mambro; la seconda è che se Bellini è colpevole, se era fisicamente lui nella stazione di Bologna, non c'è nessun motivo perché ci fossero anche i due capi dei Nar. Di più: non c'è motivo per cui i due, due cani sciolti, due «magnifici pazzi» come li chiama la sentenza, venissero assoldati per eseguire una decisione pianificata in tutt'altri contesti.
Per capire che contro Bellini ci sono più prove che contro Fioravanti basta poco: Bellini viene ripreso dal video di un turista in stazione poco prima dell'esplosione; l'alibi fornito decenni fa, secondo cui era in viaggio per la famiglia, si rivela palesemente falso. Mentre l'unico elemento concreto contro i due dei Nar, la testimonianza dell'ex camerata Massimo Sparti, viene smantellata anni dopo, in una intervista al Tempo, dal figlio di Sparti. Ma a impressionare è soprattutto la differenza di contesti. Né di Fioravanti né di Mambro si è mai trovata traccia di contatti con servizi più o meno deviati. Bellini in quel mondo, ereditato dal padre Aldo, è invece cresciuto, ne è stato coccolato, protetto e aiutato. Se è in quel mondo (e su questo l'ordinanza della Zavaglia è esaustiva) che è stata decisa la strage, l'esecutore perfetto era Bellini. Non lo era Fioravanti, e certamente se lo era il primo non poteva esserlo il secondo.
Eppure
ogni volta che qualcuno osa sostenere l'innocenza di Giusva si scatena in finimondo. Certo, Fioravanti potrebbe risolvere molti dubbi se, oltre a proclamarsi innocente, dicesse il molto che sa. Ma ognuno è fatto a modo suo.
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