Proverbi, neologismi (e qualche parolaccia) per farsi capire da tutti

Gergo "porteño" e metafore: una lingua familiare all'insegna della libertà. Il caso della "frociaggine"

Proverbi, neologismi (e qualche parolaccia) per farsi capire da tutti
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Dei tanti equivoci che hanno accompagnato la percezione del papato di Francesco, forse il più condiviso è quello che vorrebbe il suo linguaggio povero e plebeo, la sua sintassi degna di un curato di campagna, le sue espressioni grezze. La realtà è che la lingua di Francesco è stata protagonista del suo magistero tanto quanto il contenuto. D'altronde, non molti giovani sacerdoti possono dire di aver tenuto un corso di Scrittura creativa; ma nessuno può dire di aver avuto ospite Jorge Luis Borges, e di aver raccolto i suoi elogi. Nessuno tranne Jorge Mario Bergoglio da Flores, Buenos Aires.

Proprio i natali platensi del Papa sono stati un ingrediente fondamentale della sua lingua, almeno quanto il dialetto piemontese della nonna Rosa che gli insegnò a pregare. La sua formazione politica e teologica, insieme all'idea stessa che comunicare significhi dialogare e creare un «linguaggio della carità», ha fatto il resto. Il risultato è stato una lingua soprattutto orale, poetica, popolare ed empatica, come si legge nel saggio Il linguaggio di Papa Francesco del linguista Salvatore Claudio Sgroi. Un lessico familiare e istintivo, colorato di neologismi (qualcuno li ha ribattezzati «bergoglismi») e immagini anche forti; metafore, battute e perfino qualche parolaccia. Qualsiasi cosa pur di farsi capire da tutti.

A proposito di creatività, vale la pena citare «doverfarismo» (chi ha sempre un buon consiglio per gli altri), «nostalgiare», «zizzaniere» (le seminatrici di zizzania); e ancora «misericordiando», «mafiarsi» e qualche verbo che pare preso in prestito dal lunfardo, lo slang degli immigrati del porto di Buenos Aires che riluce nei testi del tango, come «primerear» o «balconear», ovvero anticipare e starsene a guardare dal balcone senza sporcarsi le mani.

Se i prestiti dalla natia lingua porteña sono vividi e fantasiosi, altrettanto lo sono le espressioni con cui Francesco ha saputo rendere perfettamente soprattutto le condanne morali più forti. Così la corruzione non puzza ma «spuzza», la Chiesa che insabbia le denunce di pedofilia è «shit, caca, merda» ed «essere profeti vuol dire fare ruido, fare casino». Ma se frasi come «gli evangelizzatori devono avere odore di pecora» o «mi fanno schifo i preti carrieristi» hanno colto nel segno, grande è stata l'indignazione per quel «nella Chiesa c'è già troppa frociaggine» che ha reso addirittura necessaria una nota ufficiale per chiarire l'assenza di intenti omofobi.

A dire il vero, il bersaglio delle accuse più colorite di Bergoglio sono sempre stati gli ipocriti in seno alla Chiesa, «i discepoli della Coca Cola spirituale», i «cristiani liquidi» a cui sono stati dedicati insulti che fanno sorridere: il vero cristiano non deve essere «inamidato», «vanitoso», «pavone», «da pasticceria», «pappagallo»: non deve avere «la faccia da funerale» né «la faccia da baccalà»; i sacerdoti non devono essere «farfalloni», «sgranarosari», «deboli fino alla putredine», «con il cuore amaro come l'aceto»; la Chiesa «non sia una dogana», la carità «non sia à la carte», perché non esiste un «Dio-spray che non si sa cosa sia».

Negli anni, gli strali (raccolti da Lenny Detroit nel Libro degli insulti di Papa Francesco) hanno messo nel mirino «il disgustoso narcisismo dei teologi», «i mass media che alimentano la coprofagia» di malelingue, «la peste del chiacchiericcio», i «vescovi da aeroporto» lontani dalle loro comunità, l'«Alzheimer spirituale» della società, gli «untuosi idolatri», le «banderuole», i «neo pelagiani» che non si aprono alla grazia divina e i «martalisti», che come Marta - sorella di Lazzaro - peccano di eccessivo attivismo. Toni aspri e malcelate minacce sull'uso delle maniere forti, come dopo la strage di Charlie Hebdo: «Se qualcuno offende mia mamma, si aspetti un pugno». O ancora: «I corruttori? O li insulto, o gli do un calcio dove non batte il sole».

Tuttavia, la forza della lingua bergogliana non sta solo in questa variopinta intensità, senz'altro distante dallo stile algido e teoretico di Ratzinger. In realtà la sua potenza comunicativa parte dalla spontaneità e da una grandissima libertà. Libertà dal politicamente corretto (la «frociaggine» già citata, ma anche la criticata uscita su «essere buoni cattolici non significa figliare irresponsabilmente come conigli»), libertà dalle frasi di circostanza, dalle formule ampollose. Così, se per la Treccani «le sue costruzioni sintattiche non formali imitano il parlato come la prosa manzoniana», i semplici fedeli ne hanno apprezzato l'immediatezza e l'umorismo.

«La differenza fra un liturgista e un terrorista? Con i terroristi si può trattare...». Parola di un prete arrivato «dalla fine del mondo» che conosceva il valore dell'ironia e che alle suore di clausura lasciò il più affettuoso dei consigli: «Non perdete mai il senso dell'umorismo».

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