I passi di corsa avanti e indietro e la frenesia, un suono nuovo ovunque nell'ospedale. Il numero dei malati che aumentano, centoventi fin dai primi giorni, fino a 350 di questi giorni, la terapia intensiva in collasso; senza neppure il tempo di capire bene cosa stesse accadendo, come tutte le guerre che arrivano senza preavviso e ti travolgono. L'ospedale San Matteo di Pavia è di colpo irriconoscibile, al centro della prima zona rossa in Italia, l'ancora di salvezza per tutta la bassa del Pavese. I casi di Codogno, di Lodi sono appena scoppiati, le costellazioni di paesi delle campagne cadono sotto la morsa del virus uno dopo l'altro come in un tragico domino.
Damiano Rizzi, presidente della Fondazione Soleterre è lo psicologo che tra i primi capisce che ci sarebbe stato bisogno di lui, tra quelle corsie diventate un incubo. L'appello dell'assessore al Welfare Giulio Gallera arriva il 6 marzo, pochi giorni dopo il suo team di Soleterre, che da vent'anni offre supporto psicologico ai bambini malati di tumore in 22 Paesi del mondo, è già lì. Per i medici e gli infermieri, i pazienti e i familiari a casa. «E ci siamo trovati davanti a un vero e proprio inferno. Inconcepibile per chi non lo vede con i propri occhi, mai una situazione del genere si era verificata nel nostro Paese. Lo sforzo a cui sono sottoposti lì dentro è epico. Fisico ma anche psicologico. Ma quello che davvero è difficile e totalmente nuovo per tutti è la terribile confusione tra i ruoli. I parenti a casa diventano spesso pazienti poche ore dopo. Hanno paura e sono soli. Si sono rotte le barriere. Ci relazioniamo con figli o coniugi affranti e terrorizzati, si trovano isolati perché considerati a rischio, non possono ricevere il conforto di un parente, l'abbraccio di un amico. Non resta niente a cui aggrapparsi. Si piange come in un barattolo». Lui insieme ai medici si occupa di dare quella che in gergo viene definita la «bad news». «Lo facciamo con una videochiamata, la forma meno anaffettiva che in questo momento possa esserci». Assurdo anche solo pensarci fino a un paio di mesi fa. «Alcune volte a ricevere la telefonata è un ragazzo disabile che ha appena perso il genitore o un anziano che resta solo. Così, prima di chiamare a casa attiviamo una rete, coinvolgiamo il prete o il sindaco, che vada davanti alla porta. Non può abbracciarli ma almeno si affaccia e saluta dalla finestra. Piccole cose ma fondamentali. In un caso ho dovuto parlare con la figlia ricoverata; nella stanza accanto i genitori, che invece erano appena morti». Un virus che travolge e colpisce senza sconti. «Qui il lutto non è più di ciascuno, ma è una catastrofe collettiva, poi occorrerà che l'elaborazione passi al singolo». Ma anche in questo caso il nuovo fa spavento. «Non vedere i propri cari, l'esperienza di questa sospensione irreale porta a una de-realizzazione, a creare fantasmi, tanto che alla fine non ti sembra vero. Riuscire a convivere con questa realtà, che una mamma o una moglie se ne siano andati senza sapere neppure dove sia il corpo è atroce, nessun addio». Il lavoro del dottor Rizzi è tentare di mettere ordine. «Cerco di creare spazio, di far trovare una collocazione alle cose che capitano ai miei pazienti. E anche in futuro, quando questa onda passerà, resteranno tante ferite da ricucire».
Poi ci sono quelle immagini, che resteranno per sempre davanti agli occhi. «Un uomo un attimo prima di morire ha alzato la mano e con le ultime forze ha accarezzato la visiera del medico accanto a lui». Medici vestiti da alieni, e una paura così umana della morte.
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