Quando si manipola il diritto il garantismo diventa utopia

Nel suo ultimo libro Pecorella ripercorre le storture del sistema: su tutti la mancata terzietà dei giudici

Quando si manipola il diritto il garantismo diventa utopia

Spazia in cinquant'anni di storia italiana, calando una sonda inesorabile nella politica giudiziaria di questo Paese, il volume che ci ha regalato Gaetano Pecorella. Una raccolta di scritti intitolata Utopie Scritti di politica penale, che costituisce la summa della sua lunga militanza di giurista nella politica e nell'avvocatura. Scritti che guardano alla ragione, non solo come strumento del diritto, ma come fine ultimo del processo penale. Un processo visto come modello ideale, nel quale l'uomo (l'accusato), così come nell'illuminismo critico di Kant, non è mai ridotto a mezzo per il raggiungimento di altri scopi. Per quanto nobili o ragionevoli essi appaiano. Ed è proprio la tensione fra i valori della libertà e dell'autorità ed il conflitto fra le pulsioni giustizialiste ed i principi costituzionali del giusto processo, che trova in questi scritti, che spaziano dagli anni '70 (vigente il nostro vecchio codice inquisitorio) alle riforme «futuribili» del nuovo codice accusatorio, una risposta coerente ed inequivoca.

Si tratta di una tensione tutta interna alla storia politica di questo Paese che si esprime nella difficoltà di comprendere il vero ruolo delle garanzie in una moderna democrazia, ed il valore universale della cultura garantista, così come emerge in maniera plastica dall'esemplare teorizzazione dell'onorevole Pecchioli - citata da Pecorella in un suo scritto del 1977 - secondo cui «occorre segnalare i limiti e anche i pericoli di un astratto ed esasperato garantismo che da alcune parti viene oggi riproposto» ammonendo che «il problema fondamentale è quello di un equilibrio fra diritti dei singoli e diritti della collettività in una società in trasformazione secondo valori sociali e morali ben diversi da quelli dei vecchi sistemi liberali». Dimenticando che quelle garanzie «liberali» poste a tutela dell'individuo, costituiscono il presupposto di ogni libertà democratica e di ogni futura giustizia sociale. E dimenticando, come sottolinea l'Autore, che quella pretesa «revisione» del garantismo si traduce inevitabilmente in uno «scadimento delle libertà costituzionali», fondamento di ogni collettività democratica presente e futura e condizione di ogni suo «valore sociale e morale».

C'è così il tema del «processo penale come terreno di confronto e di scontro politico» (1977) che ha attraversato la lunga e drammatica stagione degli Anni di piombo e dei processi di terrorismo. Un tema che riassume in sé anche il complesso e contraddittorio percorso compiuto dal codice Rocco verso il cosiddetto «inquisitorio garantito», segnato nel volgere degli anni 70 da vistose inversioni autoritarie, con espansione dei poteri di polizia e conseguente compressione del diritto di difesa. È il campo di confronto con le teorie del «controllo sociale» e dunque della formazione del «consenso» e del «dissenso» negli anni delle rivendicazioni sociali e sindacali, dello stragismo di stato e delle lotte di classe e dunque del «processo politico».

Argomenti trattati nell'alveo di una formazione esplicitamente e dichiaratamente marxista, quella del processo inteso come strumento della lotta di classe, ovvero «della lotta delle classi subordinate contro il ceto dominante», che si sviluppano e si evolvono nel tempo con coerenza, dimostrando non solo la compatibilità di questa visione del mondo con la tutela delle garanzie individuali, ma anche come sia questa la sua unica possibilità di affermazione. Ne discende infatti nitida l'idea dei diritti della persona, dei diritti civili e sociali come diritti che, in una democrazia moderna e matura, stanno o cadono tutti insieme. I temi così solo apparentemente si disgiungono e si separano negli anni, per poi riannodarsi e ricongiungersi nei diversi contesti, arricchendosi di nuovi argomenti ed allargandosi verso più larghi orizzonti politici, nei quali la storia stessa dell'Unione delle Camere Penali e delle sue battaglie funge da fucina e da cassa di risonanza al tempo stesso.

Al centro di molte riflessioni la figura del giudice, la cui collocazione ordinamentale campeggia problematicamente negli scritti dedicati alla separazione delle carriere, nella cui mancata realizzazione viene lucidamente colto il peccato originale del fallimento del codice accusatorio: «Il punto di partenza non è il pubblico ministero: è il giudice. La parte malata del processo penale, la vera riforma a cui deve porsi mano, non riguarda la posizione del pubblico ministero: riguarda la funzione del giudice e del giudicare» (Congresso Ucpi, Abano Terme, 1994).

La mancanza del giudice ordinamentalmente terzo, introdotta dalla riforma costituzionale del giusto processo (2001), costituisce la radice di molteplici fenomeni distorsivi: da quello della espansione del potere inquisitorio delle procure a quello conseguente della ricerca del consenso da parte dei pubblici ministeri ed a quello strettamente connesso della mediatizzazione del processo penale, con la inevitabile perdita della «verginità cognitiva» del giudice del dibattimento. Ma la mancanza di un giudice terzo è anche perdita di legittimazione del potere giurisdizionale davanti all'opinione pubblica.

A ben vedere, anche la «crisi della legalità» è frutto dello sbilanciamento del giudice sul fronte della lotta al fenomeno criminale: una volta piegato alla figura di «giudice di scopo» il giudicante sarà inevitabilmente indotto ad interpretare la legge e la norma processuale come altrettanti strumenti di repressione dell'illecito, stravolgendone la radice garantistica e liberale. Come ricorda Pecorella: «L'idea stessa della riserva di legge nasce in funzione della tutela della libertà dei consociati che attraverso il controllo politico scelgono coloro che potranno limitare i loro diritti in funzione del bene comune. Ciò non vale evidentemente per i giudici, che sono reclutati per concorso, e sono politicamente irresponsabili». Controverso e attualissimo il tema della irreversibilità della crisi del principio stesso di legalità, come crisi del potere legislativo, ma anche della moltiplicazione delle fonti, e del cosiddetto cambio di paradigma, dalla prevalenza del diritto alla egemonia del fatto e del precedente giurisprudenziale («una legislazione più chiara, meno ondivaga, sicuramente vincolerebbe di più i giudici, ma lo spazio di potere che hanno conquistato con la interpretazione creativa, soprattutto da parte della Corte costituzionale, è un territorio a cui molto difficilmente la magistratura potrebbe rinunciare»).

Ed altrettanto attuali e controversi i temi della del «tornare alla giuria» come unica via verso alla realizzazione dell'accusatorio, e quello del pm «organo dello Stato-amministrazione», come vera realizzazione della separazione delle carriere («Oltre la separazione delle carriere»), quello del «contraddittorio anticipato» nel procedimento cautelare e quello della inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pubblico ministero.

La raccolta apre con uno scritto recente, Lettera a un giovane avvocato, che si rannoda a quel «crepuscolo del rito accusatorio» che chiude la raccolta gettando uno sguardo severo sullo stato attuale del processo penale. Sulla questione irrisolta dei rapporti profondi che corrono inevitabilmente fra processo penale e costituzione, fra struttura ordinamentale ed esercizio concreto della giurisdizione, fra collocazione del giudice all'interno di quella struttura ed esercizio dei suoi poteri. Nasce da quelle basi materiali, da ciò che la magistratura intera, nella sua essenza monolitica, pensa di sé e del suo governo, una resistenza antimoderna alla ritualità dell'accusatorio. Non sono le ragioni indicate da Michele Taruffo ad avere impedito che l'accusatorio si affermasse, non una sopravvalutazione del «contraddittorio per la prova», ma una autentica, connaturata propensione verso i valori più profondi della cultura inquisitoria, al cui successo certamente ha contribuito la natura ordinamentalmente ancipite della magistratura: «La doppia casacca del magistrato, ora giudice, ora pubblico ministero, ha fatto sì, nel tempo - come ricorda Pecorella - che risultasse sempre meno comprensibile la inutilizzabilità degli elementi di prova formati nel corso delle indagini».

Collocata all'intersezione di tutti i ragionamenti sulla legalità sostanziale e processuale, c'è la figura del difensore, consapevole della difficile stagione che attraversa fra la difficoltà del difendersi provando con le indagini difensive e l'ineffettività della difesa di ufficio, fra compressione del diritto di astensione e nuova deontologia, fra l'espulsione dal contraddittorio, a causa dell'asimmetria delle parti «davanti al giudice (non) terzo», e l'inserimento dell'avvocato in Costituzione.

Accanto all'ipotizzato utopico mondo della ragione e al processo che gli si addice, si intravedono tuttavia i «distopici» mondi dell'irrazionale, del modello accusatorio irragionevolmente piegato (dagli innumerevoli «pacchetti sicurezza») alle ragioni della «lotta al crimine», atrofizzato e distorto dalle finalità tecnocratiche dell'efficientizzazione. I distopici mondi del populismo e del giustizialismo che mettono alla prova le fondamenta stesse del diritto penale liberale e del giusto processo. Il modello processuale così lungamente vagheggiato lotta per la sopravvivenza ma, come dimostrano questi scritti, conserva intatte quelle ragioni che ne avevano imposto l'avvento. Una straordinaria testimonianza di come, anche laddove lo sguardo acuto e lucido sullo stato reale del processo penale accusatorio svela tutti i segni del fallimento, resta altissima la tensione morale, l'invito a non arrendersi mai, nella consapevolezza della necessità di continuare a difendere quel modello come unica possibilità di sopravvivenza dello spirito democratico che governa la nostra incompiuta Costituzione, la cui vivida trama sembra essere sempre al centro del pensiero di Pecorella. Proprio perché, come scriveva Calamandrei: «C'è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l'ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità.

Quindi polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente». Ed è solo così, forti di questa «polemica verso il presente», che si può navigare sicuri verso quell'isola dell'utopia di Tommaso Moro, ricordata dall'Autore, dove la ragione sembra oramai essersi nascosta per sempre.

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