Quelle verità rimosse ancora dall'ideologia. Ecco perché la Liberazione non è condivisa

L'impossibilità di valutare anche la storia dei vincitori

Alcuni partigiani, in una foto di repertorio
Alcuni partigiani, in una foto di repertorio
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Qualcosa non va, nella festa del 25 Aprile, se ogni anno si rinnovano polemiche, contestazioni (specialmente della Brigata Ebraica) e appropriazioni di parte. E, ancor peggio, se il significato storico della Liberazione viene eclissato da slogan filopalestinesi, cori antigovernativi, prove di forza antagonistiche. Così è inevitabile che le dichiarazioni ufficiali di concordia antifascista non convincano, né bastino a ricucire gli strappi.

Ciò che impedisce al 25 Aprile di trasformarsi in una festa di tutti, in realtà, è una serie di ambiguità rimosse. Già sulle definizioni non c'è accordo: gli eventi che culminarono nel 25 aprile si devono considerare guerra patriottica, o piuttosto di classe (soprattutto nel Centro Nord), o civile (secondo una famosa e contestata definizione dello storico Claudio Pavone), o ancora ideologica (non solo contro il fascismo, ma anche all'interno delle stesse formazioni partigiane)? Quest'ultimo è il punto più delicato. È impossibile mettere da parte infatti la profonda differenza che caratterizzò la lotta antifascista, e che vide da una parte le formazioni comuniste, numericamente maggioritarie, e dall'altra quelle socialiste, liberali, cattoliche, azioniste, ispirate da ideali molto diversi. Contrasto tutt'altro che teorico, illustrato da tre caratteristiche identitarie dei soli comunisti: il progetto di «fare come in Russia», stabilendo in prospettiva un regime totalitario;

l'obbligo di affiancare ai responsabili militari i commissari politici, incaricati di guidare i militanti con la briglia dell'ortodossia marxista-leninista; e la pratica del terrorismo individuale. Responsabile, quest'ultima, di gesti sanguinosi spesso affidati ai GAP e alla Volante Rossa, che mettevano in conto l'inevitabilità delle rappresaglie fasciste.

La presenza di scheletri così ingombranti nell'armadio della Resistenza è occultata ogni volta dalla storica egemonia di sinistra in cerimonie e manifestazioni pubbliche, dove spesso il «revisionismo» viene censurato, o considerato alla stregua di provocazione, se non addirittura accusato di «rivalutare» il fascismo. Uscire da un simile circolo vizioso è possibile soltanto se si adotta una prospettiva realmente laica, riconoscendo l'esistenza di varie esperienze, di forme diverse di Resistenza. Prima fra tutte, quella delle formazioni partigiane democratiche che, per essersi opposte all'egemonia di quelle comuniste, hanno spesso pagato un prezzo elevato, dovendo battersi in pratica su due fronti. Vale per tutti l'eccidio di Porzus, dove trovò la morte Guidalberto Pasolini, fratello minore di Pier Paolo, colpevole agli occhi dei «rossi» di essere un «bianco» della Brigata Osoppo. Ma si potrebbe fra le tante citare anche la vicenda tragica dei sette fratelli Cervi, a lungo esaltati dalla prosopopea comunista distillata dalla penna di Italo Calvino, in realtà abbandonati alla repressione fascista dai comunisti reggiani ortodossi, che li consideravano pericolosi anarchici, restii ad obbedire agli ordini del partito, e incapaci di «sparare realmente sull'uomo». Ma non si devono tacere anche le altre forme di resistenza, attive o passive, comunque degne di essere ricordate. A cominciare da quella del Corpo italiano di liberazione che combatté al fianco degli Alleati. Senza dimenticare la sorte degli antifascisti italiani sterminati nei gulag sovietici (un migliaio); i militari dell'Armir deportati nei campi di concentramento russi (220mila dispersi); gli IMI, cioè gli internati militari in Germania (di cui oltre 600mila irriducibili furono costretti a lavorare come schiavi da Hitler). Ammettere queste forme diverse di Resistenze non significa sminuire l'importanza della lotta politica e militare, compiuta comunque da una minoranza, ma ricondurre il significato della Liberazione ai valori democratici e liberali propri dell'Occidente. Una conquista che non sarebbe stata possibile senza l'apporto decisivo sul campo di battaglia - troppo spesso lasciato in secondo piano - degli Alleati angloamericani.

È necessario insomma liberare il 25 Aprile dalle sue rimozioni e parzialità, per ricondurlo a un sentimento realmente condiviso. Altrimenti il non detto finisce per prendersi le sue rivincite.

Come accade oggi nella Russia di Putin, dove le imminenti celebrazioni per la Vittoria del 9 maggio 1945 sulla Germania nazista serviranno a nascondere la tragica realtà dei gulag e della repressione generalizzata successiva, messa in atto da Mosca su metà dell'Europa. E, in aggiunta, a mascherare i crimini di oggi in Ucraina.

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