Per anni è stato Mister Protezione civile, l'uomo che accorreva a risolvere ogni emergenza che ha attanagliato l'Italia. Ma Guido Bertolaso è soprattutto un medico, laureato a Roma e specializzato in Medicina tropicale a Liverpool, ed è stato anche vice direttore dell'Unicef. Ed è stato lui a premere per la creazione di unità anti Ebola all'interno del «Sacco» di Milano e dello «Spallanzani» di Roma, i due ospedali italiani attrezzati contro l'emergenza. Ora, uscito dai radar dell'opinione pubblica, è in Sierra Leone, in prima linea nella lotta alla mortifera epidemia. In questa pagina la prima parte del suo diario dal fronte di Ebola.
Quando ho deciso di accettare la richiesta di Don Dante, il Direttore del Cuamm, di partire subito per la Sierra Leone a dare una mano ai medici che lavorano nell'ospedale di Pujehun sapevo che avrei dovuto superare la feroce e più che comprensibile obiezione di tutti, famiglia, parenti, amici vari e cari. Tuttavia ci sono (almeno) due buone ragioni per essere qui, in Sierra Leone, oggi. La prima riguarda un impegno che i medici si assumono quando prendono la laurea, si chiama giuramento di Ippocrate. Anche se non sono certo che tutti i colleghi lo conoscano e lo rispettino si tratta di un contratto che si stipula a vita, niente a che vedere con sindacati o ministeri. Riguarda la coscienza di ognuno e la volontà o capacità di sentirsi al servizio del prossimo, senza distinguo, senza comodi alibi. Oggi i popoli di tre Paesi, da sempre ai margini del pianeta, rischiano di ritrovarsi da soli a fronteggiare una catastrofe dai margini ancora poco noti, ma comunque devastanti.
Anthony Fauci, uno dei padri della lotta all'aids l'ha detto chiaramente e con forza: l'ebola è un'epidemia peggiore dell'aids. Tutti hanno capito come sia stata affrontata, all'inizio con superficialità e leggerezza e oggi il panico rischia di peggiorare ancor più una situazione dalle conseguenze su cui si è riflettuto in modo episodico. Poco risalto fu dato in Europa ad una notizia che il più autorevole quotidiano del mondo, il New York Times , ha raccontato con grande enfasi lo scorso agosto.
Tre medici si ammalarono di ebola, due erano volontari stranieri, uno era africano. Erano disponibili due sole dosi di un nuovo farmaco sperimentale e si doveva decidere a chi somministrarlo. Vennero scelti i due volontari, che si sono salvati, il medico africano morì poco dopo. Tecnicamente la giustificazione della scelta - il medico locale era già in coma e non poteva dare l'assenso alla sperimentazione - regge, ma da un punto di vista etico e, aggiungo, geopolitico molto meno. Anche la quasi totale assenza del «circo dell'umanitario» sempre presente nelle grandi emergenze planetarie la dice lunga sulla situazione.
Siamo abituati e vedere in occasioni simili porti ed aeroporti intasati di ogni tipo di aiuto, spesso inutile, teams di personale di soccorso che bivaccano ovunque in attesa di azione, passerelle continue di autorità varie che davanti alle telecamere promettono la qualsiasi. Qui il virus ha fatto piazza pulita dei falsi attori, ha subito distinto fra chi ci crede davvero e chi agisce sulla base di considerazioni di comodo, e di immagine. E gli africani stanno a guardare, aspettano ma giudicano. Anche volendo lasciare da parte i veri valori della solidarietà è bene comprendere che l'occidente si gioca una partita importante, se oggi lasciamo soli questi popoli temo che non basteranno decenni di prossimi aiuti economici per recuperare fiducia e credibilità. Forse qualcuno non lo ha ancora capito ma il senso di appartenenza che pervade tutto il continente africano è molto più forte di quello che si possa immaginare. Senza contare, ad esempio, le già catastrofiche conseguenze sul turismo in tutta l'Africa, abbandonare questi tre poveri Paesi significa abdicare al nostro ruolo storico ed i cinesi, che già si sono accaparrati quasi tutte le loro materie prime, non a caso aprono ospedali con medici e infermieri e tappezzano il paese di manifesti che inneggiano all'amicizia fra Cina ed Africa.
La seconda ragione ci riguarda ancora più direttamente. Tutta la scienza, e a seguire la politica, sostiene che la guerra all'ebola si vince qui, a Freetown, come a Monrovia e a Conakry. A chi allora facciamo combattere questa guerra? Agli africani? I miliardi di dollari e di euro promessi, ma temo ancora non avvistati, in materiali, farmaci e aiuti vari a chi li affidiamo? Ai marines ed all'esercito inglese? Lodevole presenza ma temo che non basti. Indubbiamente ci vogliono organizzazione e disciplina, ora più che mai per gestire il grande caos che regna sovrano, ma forse servono anche ingegno, professionalità, passione e dedizione che solo medici e scienziati competenti possono assicurare. Chi si occupa di emergenze è abituato a predisporre piani con le ipotesi di sviluppo peggiori. Non serve in questo caso. Nei tre Paesi, dove metà della popolazione ha meno di 18 anni, le scuole sono tutte chiuse e apriranno, forse, l'anno prossimo. Girando per il Paese l'aspetto che mi ha amareggiato e preoccupato più di tutto è l'impressionante numero di bimbi, adolescenti e giovani che vagano in ogni dove dalle prime luci dell'alba a notte fonda.
La decisione di chiudere le scuole è assurda e criminale, mi viene voglia di urlarlo ai quattro venti, a mio giudizio è la più grande cazzata che potessero fare, non dubito suggerita o imposta dalle Nazioni Unite.
Conosciamo bene la ragione, evitiamo gli assembramenti, e cosa sono le strade e i viottoli? Le bancarelle e tutti gli altri luoghi dove si radunano per fare un po' di comunità? Così si perde una generazione, si impedisce il controllo delle categorie più a rischio, basterebbe il solito termometro laser all'ingresso, e ci si priva di una forma di tracing formidabile, se davvero volessero farlo. L'agricoltura è al collasso e già si prevedono prossimi mesi di grave crisi alimentare, l'economia con il commercio estero bloccato è ferma e la disoccupazione dilagante.
Se qualcuno si illude che chiudendo le frontiere il problema si risolve dimentica la cronaca di ogni giorno e ignora che il virus è apolide e attraversa le frontiere come noi percorriamo le nostre strade consolari.
È vero che Senegal e Nigeria hanno bloccato l'epidemia ma una povera bambina che scappava dalla miseria è morta di ebola in Mali e non vi possono essere dubbi che, senza una vittoria totale da queste parti, fra qualche mese un esodo silenzioso e incontrollabile potrebbe raggiungere i nostri mari ed i nostri confini. Quindi esserci, e vincere, è un dovere. Anche perché non è difficile intuire quale uso potrebbero farne, di questa psicosi mondiale, quei terroristi che hanno dimostrato quale fantasia e capacità di subdola aggressione sono stati capaci di immaginare.
Ma parliamo di sanità: domenica scorsa era il «world polio day». A Freetown nessuno se ne è accorto, lo stesso immagino sia accaduto nel resto dei tre Paesi interessati. E questo è un altro problema-dramma, l'ebola ha spazzato via ogni progetto, ogni iniziativa di sanità pubblica, ha prosciugato i magri bilanci sanitari nazionali e concentrato tutti gli aiuti esterni. Sarà una delle peggiori conseguenze di questa epidemia e in molte zone dovranno, in futuro ricominciare da capo per immaginare un sistema di sanità di base funzionante. Già mi immagino i soliti soloni, già me li vedo piangere e criticare tutti per aver abbandonato le buone politiche per colpa dell'epidemia.
Ebola diventerà presto un alibi straordinario per coprire magagne e inefficienze a tutti i livelli e in tutti i sistemi.
Sempre domenica sono andato a visitare il centro infantile-traumatologico di Emergency a Godercich. Abbiamo fatto una bella chiacchierata con Luca, non chiedetemi mai i cognomi dei tizi che vedo perché non li ricordo, poi è arrivata dopo un po' Rossella che si è presentata come la responsabile dei loro programmi ebola.
Parlo al plurale perché oltre al treatment center per i malati di ebola, che già gestiscono, stanno organizzandosi per aprire quello che i militari inglesi, con manodopera locale, hanno in corso di realizzazione nell'Olimpic Field a poche centinaia di metri dal loro ospedale.
Si parlava dei problemi attuali ed ad un certo punto, i due colleghi se ne sono usciti raccontando che la sera prima era arrivato al centro di Lakka un sacerdote locale che aveva caricato a Waterloo (quartiere di Freetown, nome omen ) una intera famiglia colpita dall'ebola! Nel centro avevano solo due letti liberi e quindi hanno ricoverato madre e figlia e lasciato «fuori» padre e figlio che poi hanno accettato di ricoverare nella mattinata.
La pcr pare abbia confermato la diagnosi. Il prete dopo averli lasciati all'ingresso del centro ha preso la sua macchina e se ne è andato via.
Quante violazioni a tutte le migliaia di leggi, procedure e guidelines che circolano ovunque sono state commesse solo in questa specifica occasione?
E quali e quanti contatti il prete avrà avuto dopo? Magari sarà pure andato a dir messa da qualche parte! La storia nel clima attuale sembra inverosimile ma l'hanno raccontata due colleghi che dovrebbero essere maestri nella gestione del problema. Se questa è la realtà temo che le statistiche che leggiamo, che sappiamo già essere molto per difetto, siano davvero assai lontane dalla verità, spero di sbagliarmi ma anche girando nei quartieri più malfamati e citati come il vero serbatoio del virus la vita sembra trascorrere tranquilla, non ho visto un solo team di tracers, o come si chiamano loro, girare, non un controllo di alcun genere. A detta dell'autista sembra che ci sia un po' meno casino del solito nelle stradine e intorno alle bancarelle ma se non avessi saputo dove mi trovavo potevo tranquillamente pensare di essere a Dakar, a Niamey o a Banjul.
Ho visto invece un paio di discariche straordinarie in pieno centro città, scusate la deformazione professionale , molto simili a quelle di Korogocho a Nairobi, con gente che rovistava fra i rifiuti e più in quota rispetto alle baraccopoli adagiate ai loro piedi e zeppe di umanità, spesso infantile, che razzolava in mezzo ad acquitrini causati dalle continue
piogge che mischiano letame vario al percolato. Che c'entra con l'ebola direte voi, beh trovo ipocrita quanto meno che ti costringano a lavarti le mani con la varechina a pochi metri da questi letamai umani.(1- continua)
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