Il rebus delle pensioni in Italia è talmente complicato che nemmeno l'Ocse riesce a indicare con chiarezza una strada percorribile per eliminare le asimmetrie che caratterizzano il sistema. L'edizione 2021 di Pensions at a glance, infatti, si limita a elencare alcune evidenze statistiche senza, tuttavia, definire una scala delle priorità da affrontare (a differenza di quanto l'organizzazione parigina fa, ad esempio, con il sistema fiscale). Il dato che colpisce maggiormente l'immaginario collettivo è relativo all'età di pensionamento futura. L'Italia figura tra i sette Paesi Ocse per i quali si prevede un requisito di futura età pensionabile «normale» a metà degli anni '60 tra i più elevati con 71 anni di età, come la Danimarca (74 anni), l'Estonia (71 anni) e i Paesi Bassi (71 anni) contro una media OCSE di 66 anni. Insomma, la generazione che accede adesso al mercato del lavoro, nata nel corso degli anni '90 del secolo scorso, dovrà lavorare per oltre 40 anni prima di accedere ai meccanismi di uscita.
L'Ocse, infatti, ricorda che, in virtù della legge Sacconi (inasprita dalla legge Fornero), l'Italia è il Paese dove tutti i miglioramenti dell'aspettativa di vita vengono automaticamente integrati all'età pensionabile. Un esempio seguito da Danimarca, Finlandia e Olanda. Eppure, evidenziano gli analisti di Parigi, «in un regime contributivo tale legame non è necessario per migliorare le finanze pensionistiche, ma mira a evitare che le persone vadano in pensione troppo presto con pensioni troppo basse e a promuovere l'occupazione in età più avanzata». L'unico suggerimento, proposto tra l'altro con molta discrezione, è appunto quello avanzato da Mario Draghi prima che Cgil e Uil tagliassero i ponti con Palazzo Chigi. «Quota 102 ci avvicina al contributivo», aveva detto presentando la misura contenuta nella manovra che ha scontentato comunque Cgil, Cisl e Uil nonostante evitasse lo scalone del rientro in vigore della Fornero (dai 62 anni di quota 100 a 67 dal 2022).
Proprio l'Ocse, però, ha messo in guardia il nostro Paese dall'adottare regimi pensionistici troppo laschi. «Le diverse opzioni disponibili per anticipare il pensionamento - si legge nelle note al rapporto - abbassano l'età media di uscita dal mercato del lavoro, pari mediamente a 61,8 anni contro i 63,1 anni della media Ocse». La concessione di benefici relativamente alti a pensionati giovani fa sì che la spesa pensionistica pubblica dell'Italia si collochi al secondo posto tra le più alte dei Paesi dell'Ocse, pari al 15,4% del Pil nel 2019. E questi numeri cozzano con i desiderata di Maurizio Landini e Pierluigi Bombardieri che, in generale, chiedono un aumento di questo capitolo di spesa.
Fare una sintesi, pertanto, non è semplice né per il governo né per gli esperti della materia. Da un lato, infatti, si ritrovano lavoratori «anziani» ma con contribuzioni che spesso non arrivano ai 35 anni. Dall'altro lato, i giovani che entrano nel mondo del lavoro hanno retribuzioni basse e carriere discontinue. L'ultima problematica messa in evidenza dall'Ocse riguarda proprio il tasso di sostituzione, ossia il rapporto tra ultimo stipendio e assegno pensionistico che in Italia è all'82% (62% la media).
Tuttavia, una lavoratrice che inizia la sua carriera a 27 anni ed è disoccupata per 10 anni nell'arco della vita professionale riceverà una pensione inferiore del 27% rispetto a quella di una lavoratrice a tempo pieno (-22% la media Ocse). Stesso discorso per gli autonomi. Ma questa per il sindacato è solo una battaglia secondaria perché tutte le fiches sono puntate sulle uscite anticipate senza penalizzazioni.
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