A un passo dall’apertura delle urne, Matteo Renzi dà un’esplicita benedizione a un eventuale bis di Paolo Gentiloni: «Se il presidente della Repubblica lo incaricherà, avrà il mio più pieno sostegno. Vale per lui o per chiunque altro del Pd».
È una piccola svolta, perché mai il leader del Pd era stato così chiaro sull’argomento. Se sia un autentico via libera all’ipotesi, caldeggiata da molti nel suo schieramento, o un’esternazione da campagna elettorale per attirare sul Pd quei larghi consensi registrati dai sondaggi sulla popolarità del premier, è presto per dirlo. Del resto il segretario dem sa bene che gli endorsement per Gentiloni che si susseguono dal centrosinistra (da Prodi a Veltroni, da Letta a Bonino) sono spesso messaggi trasversali mirati a delegittimare la sua leadership, più che ad affermare quella del presidente del Consiglio in carica, sottolineando un «dualismo» tra i due che lui smentisce con decisione: «Se esiste una persona con la quale non c'è mai stato dualismo è Paolo Gentiloni: abbiamo lavorato in modo splendido quando io ho fatto il premier e lui il ministro degli Esteri; abbiamo lavorato in modo splendido quando lui ha fatto il premier e io il segretario. Non abbiamo nessun problema», sottolinea.
E «chi continua a vivere queste elezioni come primarie interne» danneggia proprio il Pd. Ma la sua priorità, in queste ultime quarantotto ore di campagna elettorale, perchè «soffia un vento di destra molto forte», denuncia. E, sotto sotto, Renzi è convinto che molti appelli «pelosi» al voto non per il Pd ma per la «coalizione di centrosinistra» o per liste come quella della Bonino siano innanzitutto mirati ad indebolire il partito renziano e il suo segretario, deviando i consensi su simboli che, come quello dei radicali, potrebbero superare la soglia del 3% e sganciarsi un attimo dopo dall’accordo. Così, dopo aver sparso per settimane ottimismo sul Pd potenziale primo partito, ora Renzi lancia l’allarme e richiama al «voto utile», perché «il rischio vero che c'è oggi - spiega - è che il Pd non sia il primo gruppo parlamentare, e quindi dobbiamo fare uno sforzo perché siano tanti i cittadini che votano Pd».
Nel frattempo, ci pensa un suo stretto alleato come il presidente Pd Matteo Orfini a mettere i puntini sulle i e ad avvertire chi volesse preparare il ribaltone interno, in caso di sconfitta. Più che di incarico ex novo a Gentiloni (perché «se avremo la forza di guidare il governo il candidato per me è il segretario del Pd, come da statuto», sottolinea Orfini), l’idea è quella di una «proroga» del governo attuale in caso di stallo post-voto: «Il governo del presidente non è per noi un'opzione, c'è un governo in carica che può continuare a lavorare per una nuova legge elettorale». Se il Pd uscirà battuto dal voto, aggiunge, «andremo all’opposizione» perché con gli «estremisti», Lega o grillini che siano, «il Pd non governa». Ma Orfini manda anche un messaggio diretto ai «padri nobili» e ai big dem, a futura memoria in caso di sconfitta: «La natura del Pd, per scelta di Veltroni e Prodi, è quella di un partito in cui le scelte non le fanno Orfini, Renzi, Veltroni, Prodi e 10 leader, ma gli elettori. Il Pd resterà così anche dopo il 4 marzo.
Se dovessimo cambiare leader, lo sceglierà il popolo del Pd non un caminetto». Tradotto: non si pensi a giubilare Renzi, mettendogli in carico una batosta elettorale con l’accusa di aver «resuscitato il centrodestra», e a sostituirlo alla segreteria per vie interne, senza passare per un congresso- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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