Il colpo di scena arriva in apertura di udienza. La Procura generale di Milano rinuncia ai motivi di appello nel caso Eni-Nigeria. Nessun processo di secondo grado dunque, diventano definitive le assoluzioni «perché il fatto non sussiste» dei 15 imputati, tra cui le società Eni e Shell, l'attuale ad della compagnia petrolifera Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni decise dal Tribunale nel marzo dello scorso anno. Il processo va avanti solo per gli aspetti civili, dal momento che anche la Nigeria aveva impugnato le assoluzioni come parte civile e chiesto un risarcimento.
Quello del sostituto procuratore Celestina Gravina è un atto clamoroso e con pochi (se non nulli) precedenti. Non si è limitata infatti a chiedere la conferma delle assoluzioni di primo grado, su cui la Corte si sarebbe poi dovuta esprimere come alla fine di ogni dibattimento. Ha invece cassato l'impugnazione presentata dalla Procura, nella persona del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, della prima sentenza e ha evitato la celebrazione stessa del nuovo processo. Qui la Seconda sezione della Corte d'appello, presieduta dal giudice Enrico Manzi, non ha potuto che prendere atto e non è possibile il ricorso in Cassazione. Gravina ha inoltre chiesto ai giudici «la declaratoria di passaggio in giudicato» del verdetto di assoluzione. Nel motivare la propria decisione il sostituto pg sconfessa radicalmente il lavoro dei «colleghi» del quarto piano che in questo procedimento basato su una presunta corruzione internazionale avevano investito enormi energie e risorse. «Non c'è prova di nessun fatto rilevante in questo processo - è la conclusione della requisitoria di ieri - Gli imputati che hanno patito un processo lungo sette anni hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale, di durata ragionevole. Il processo non è la sperimentazione della dialettica delle parti». Gravina ha spiegato di ritenere «di dover esercitare la sua funzione di osservanza della legge», quindi di rispettare i dettami della Suprema corte e tener ben presente che esiste una sentenza di assoluzione passata in giudicato sui due presunti intermediari della maxi tangente nigeriana. «Mancano le prove in questo processo e i binari di legalità del processo segnato dalla Cassazione sono corrispondenti al diritto delle persone in questo Paese a non subire processi penali quando non sussistano i presupposti di legge. Questo processo deve finire oggi perché non ha fondamento».
Tutto era nato dall'accusa a Eni di aver pagato una mazzetta da 1,092 miliardi di dollari per aggiudicarsi nel 2011 la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di sfruttamento del giacimento Opl245. Ha argomentato il sostituto pg: i motivi d'appello della Procura «sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». Pesa l'assoluzione, chiesta e ottenuta dalla stessa Gravina e poi passata in giudicato, dei due presunti mediatori (processati in abbreviato) della corruzione ipotizzata. «Ma il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto. E questa è una violazione delle regole di giudizio». Ancora ha parlato di «vicende buttate lì come una insinuazione», di «esilità e assoluta insignificanza degli elementi» portati dalla Procura e di «colonialismo della morale» del «pm». Non c'è, ha sostenuto, «prova dell'accordo per una corruzione, non c'è prova del pagamento di un'utilità corruttiva».
C'è da parte del pm (mai citato per nome) un «atteggiamento fondamentalmente neocolonialista, altro che il colonialismo predatorio di cui sono accusate le due compagnie petrolifere che hanno fatto la ricchezza della Nigeria». Così Paola Severino, avvocato di Descalzi: «Una requisitoria penetrante, argomentata, sintetica, pacata che però ha frantumato completamente l'accusa».
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