
Quando nel 2012 l'Unione europea fu investita dalla crisi finanziaria, all'allora presidente della Bce, Mario Draghi, fu sufficiente pronunciare una semplice frase: «Nell'ambito del nostro mandato, siamo pronti a fare tutto il necessario per preservare l'euro. E credetemi, sarà abbastanza». Ciò convinse i fondi speculativi a desistere dall'azione di destabilizzazione. A distanza di quattordici anni, il Vecchio Continente si trova ad affrontare una nuova sfida esistenziale che richiederà ben di più di una frase, per quanto efficace: (ri)diventare rapidamente un attore geopolitico dotato anche di capacità di deterrenza militare. L'adozione del «Governo dell'economia» da parte dell'amministrazione americana, ossia il primato degli interessi strategici di lungo termine rispetto a quelli economici di breve termine, si sta già traducendo in una destrutturazione della pax americana e, di conseguenza, nella trasformazione dell'ordine che regolava politica, economia, sicurezza e sistemi monetari che hanno segnato la nostra vita sin dal secondo Dopoguerra.
Trump intende invertire un processo di declino strutturale degli Stati Uniti per arrivare a un nuovo equilibrio con Pechino, forse con l'aiuto, più o meno consapevole, della stessa Mosca, che potrebbe liberarsi almeno in parte dalla morsa cinese, che ha dovuto accettare per sopravvivere alle sanzioni occidentali. Messa all'angolo da Washington, Bruxelles prova a correre ai ripari pensando a un piano per dotarsi delle capacità militari che non ha: il piano Readiness 2030. Parallelamente, il Parlamento tedesco ha votato per riformare la regola sul freno al debito, che in precedenza limitava i deficit di bilancio a non più dello 0,35% del Pil, esentando da tale limite le spese per Difesa, protezione civile, intelligence e cyber sopra l'1% del Pil. L'approccio europeo alla Difesa e alla sicurezza non sembra però partire con il piede giusto. Innanzitutto, perché potrebbe non esserci grande adesione alle opzioni di finanziamento ipotizzate dalla Commissione: esenzioni nel Patto di Stabilità per la spesa in Difesa fino all'1,5% del Pil e un nuovo strumento di prestito da 150 miliardi.
La Germania sfrutterà probabilmente il margine fiscale extra concesso dalla revisione del Patto, ma troverà più conveniente indebitarsi autonomamente che usare il fondo proposto. La Francia, il cui limite non sono le regole Ue ma i deficit gemelli (di bilancio e della bilancia dei pagamenti), con ogni probabilità non utilizzerà né l'una né l'altra opzione. L'obiettivo di Parigi potrebbe essere quello di scaricare le spese per l'ombrello nucleare sui Partner comunitari, liberando risorse per le spese nazionali. Cautela è stata espressa anche dal Governo italiano che, pur riconoscendo la necessità di aumentare le spese della Difesa per acquisire le capacità che non ha e garantire la sicurezza nazionale, teme soprattutto di essere marginalizzato nei consessi internazionali; qui a pesare sulle scelte è il timore per la reazione dei mercati, per effetto di un eccessivo indebitamento, ma anche la scarsa propensione degli italiani a vedere la Difesa come un settore redditizio sul quale investire. Non è un caso, d'altronde, se nelle ultime settimane i rendimenti dei titoli governativi europei abbiano registrato un forte rialzo, complice anche la testardaggine della Commissione, che intende confermare l'impianto del green deal amplificando l'impatto inflazionistico sull'economia europea, derivante dall'aumento delle spese di riarmo. Il cambio di paradigma prodotto in Germania sul piano fiscale rimuove infatti quel ruolo di garante dei conti pubblici ricoperto da Berlino, che verrà d'ora in poi giocato dai gestori obbligazionari. Il problema è che Berlino, nel frattempo, sta vivendo una crisi di panico che la rende meno lucida nelle scelte strategiche da prendere. Complice anche la fase di transizione politica, ai tedeschi, stretti tra la politica mercantilistica adottata da Pechino e la chiusura all'export negli Usa minacciata da Trump, ora sembra importante solo ridare forza alla propria economia. C'è poi un altro aspetto non secondario che mette a rischio l'impianto concettuale del piano: in che misura saremo in grado di coinvolgere i privati a investire i loro risparmi nella Difesa, soprattutto in Paesi, come il nostro, poco avvezzi a mobilitare i risparmi. Per placare il nervosismo (e i dubbi) del mercato, i Paesi europei dovranno dimostrare che tali investimenti sono produttivi. Raggiungere tale obiettivo vuol dire innalzare il moltiplicatore a 1 e ciò rende necessario puntare con decisione su ricerca e sviluppo. Compito non facile, almeno nel breve termine, dal momento che la bassa capacità produttiva del settore renderà le importazioni cruciali (e prioritarie) nell'attività di riarmo. Ecco dunque che in previsione di future ondate di volatilità sui mercati il Governo di Roma potrebbe puntare a promuovere la Bce quale prestatrice di ultima istanza delle emissioni governative destinate a ricostituire la capacità produttiva militare. Oltre all'aspetto fiscale, il piano della Commissione sembra anche eccessivamente sbilanciato sulle posizioni del Governo di Parigi. Buy Eu al 100% richiederebbe una ristrutturazione profonda e non semplice del settore industriale; anche limitare tale tetto al 65% non eliminerebbe il rischio di danneggiare i player industriali della Difesa medio-piccoli, anche italiani, che verrebbero probabilmente sacrificati sull'altare del bilanciamento (i piccoli Paesi, privi di campioni nazionali, dovranno pur avere una fetta della torta). Un'altra criticità riguarda i rapporti con Washington. Sebbene la preclusione nei confronti Washington, Londra e Ankara non sia assoluta (il 25% della cifra stanziata può essere destinata a imprese extra UE, purché ci sia un accordo di partenariato) aver tagliato fuori gli Usa significa che Bruxelles non avrà più incentivi da offrire per dialogare sull'Ucraina. Un approccio scomposto con Washington sarebbe un problema anche alla luce di come sicurezza e Difesa si inseriscono nei piani a lungo termine dell'amministrazione Trump. Se il cosiddetto accordo di Mar-a-Lago il piano di Stephen Miran per spingere i Paesi alleati a sostenere gli Usa nel deprezzare la loro valuta e ridurre il debito diventasse un riferimento, le implicazioni per la nostra sicurezza sarebbero molto rilevanti. Sussiste poi un problema di dipendenza.
Il livello attuale di sottoinvestimento della base industriale della Difesa europea implica che i Paesi comunitari dovranno inevitabilmente importare missili, munizioni (AMRAAM, AiM-9X, HIMARS) e programmi di difesa missilistica (inclusi Patriot/PAC-3 e NASAMS), vista la mancanza di alternative europee, almeno per qualche anno. L'F-35 poi è forse il programma americano chiave, che detterà la linea delle scelte e delle relazioni reciproche tra Europa e Stati Uniti. Non ci sono infatti alternative europee di pari livello (incluso l'Eurofighter) e, se è vero che il software dell'F35 è americano, si fa fatica a pensare che Washington possa lasciare a terra l'aereo, azzerando la sua credibilità quale Paese esportatore e gettando al macero un mercato da centinaia di miliardi di dollari. A meno che qualcuno non pensi davvero di finire in guerra con Washington! Parlare poi di buy European in assenza di una politica sulle materie prime fa semplicemente sorridere. Secondo le stime di JP Morgan, il consumo europeo di acciaio derivante dal solo piano di riarmo tedesco registrerà un balzo annuo dell'8-12%, oltre le 10mila tonnellate; ma forse non tutti sanno che oggi in Europa esiste un solo produttore certificato di acciai balistici, il che pone un problema serio di dipendenza. La guerra del rame in corso tra Washington e Pechino potrebbe inoltre creare forti carenze nel mercato dell'ottone, ostacolando i piani di produzione (e di ripristino delle scorte) di munizionamento. Il fatto poi che le aziende della Difesa (non) stiano affrontando le criticità legate alle catene di fornitura, non è solo un problema industriale, ma mette a rischio tempi e consegne di materiale critico. La soluzione però non passa per l'acquisto comune: si produrrebbe solo l'aumento incontrollato dei prezzi dei materiali, come accadde per il mercato del gas nel 2022. Occorre invece razionalizzare la produzione per evitare che vi siano troppi sistemi non interoperabili e assumere dei rischi nei confronti dei fornitori, dando loro visibilità con investimenti in capacità produttiva e nel magazzino. Quante aziende della Difesa hanno visibilità degli elementi che compongono i sistemi acquistati? Quante hanno la mappatura completa dei fornitori Tier 2 e Tier 3? Quante aziende perseguono il principio della ridondanza delle forniture critiche? Il tempo in cui si poteva produrre solo dopo aver ricevuto gli ordinativi è terminato. Certo, le performance dei titoli in Borsa delle aziende della Difesa sembrano premiare il modus operandi attuale, ma si tratta di una vittoria di Pirro.
Nel nuovo contesto di caos e frammentazione, gli obiettivi devono essere legati ai target produttivi e non ai risultati di bilancio. Chi non intraprenderà questo percorso rischia di finire fagocitato da player più efficienti mettendo a rischio la sicurezza degli approvvigionamenti e quindi la sicurezza del Paese.*Fondatore di T-Commodity
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