Che, arrivato al termine di un processo interminabile e di una requisitoria estenuante, il pm Fabio De Pasquale chiedesse la condanna dei vertici presenti e passati di Eni per gli affari in Nigeria era assai prevedibile. Meno prevedibile era l'entità della stangata che la pubblica accusa chiede per gli uomini che incarnano le due epoche del cane a sei zampe: otto anni per Claudio Descalzi, l'attuale amministratore delegato, e stessa pena per il suo predecessore, Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan. Entrambi per la Procura condividono in pari grado la colpa di avere conquistato a suon di tangenti insieme a Shell il giacimento Opl245, con i suoi nove miliardi di barili di petrolio. Per un giacimento colossale, una tangente colossale, oltre un miliardo di dollari: ed è la stessa cifra che il pm chiede ora di confiscare a Eni e Shell.
A Descalzi, in realtà, nella sua ricostruzione De Pasquale attribuisce un ruolo quasi ancillare in una operazione concepita e nata tutta sotto la regia di Scaroni, e attraverso la mediazione cruciale di Luigi Bisignani, uomo di mille relazioni italiane ed estere. Era Bisignani, per cui pure il pm propone otto anni di carcere, il collegamento che portava a Dan Etete, l'ex ministro del petrolio nigeriano che con la sua società privata era riuscito a farsi assegnare i diritti di sfruttamento del giacimento, e destinatario della megastecca da dividere con i politici locali (ma anche, in parte, da rimandare in nero in Italia). E che ieri nella requisitoria è destinatario della richiesta di pena più pesante, dieci anni, condanna probabilmente virtuale, visto che Etete in Italia non si è mai visto e difficilmente apparirà in futuro da queste parti.
A Descalzi, il pm dà atto di avere recalcitrato, «non ero contento di avere a che fare con Etete, perché c'erano rischi reputazionali», di avere cercato di tirarsi fuori anche perché il pallino dell'affare sembra in mano più a Shell e ai mediatori locali che a Eni. Ma alla fine Descalzi va avanti, non si tira indietro, perfeziona l'operazione. E se ne assume, per l'accusa, tutta la responsabilità.
Per arrivare alla conclusione della requisitoria, De Pasquale e il suo collega Sergio Spadaro hanno impiegato due giorni: una durata che dice molto sulla complessità della vicenda, sul contesto spesso vago e a volte inafferrabile in cui le trattative per il giacimento si svolsero; ma anche sulla preoccupazione dei pm che il tribunale trovi fragili alcuni passaggi fondamentali dell'impianto, dove la cosiddetta «pistola fumante» non c'è. Il timore della Procura è che si ripeta quanto accaduto nel primo processo a Eni per i suoi affari esteri, l'inchiesta per le tangenti in Algeria: tutti assolti, a partire da Scaroni. Anche qui, come allora, la Procura deve fare i conti con testimonianze altalenanti, in primis quella di Vincenzo Armanna, già vicepresidente di Eni Nigeria, protagonista di accuse - ammette il pm - «con imperfezioni», ma comunque solide, e in grado di meritargli lo sconto di pena a sei anni e otto mesi. Era credibile nelle sue accuse, dice De Pasquale, non lo è quando le ha in buona parte ritrattate. Eni, afferma il pm, scelse lui per gestire l'affare perché era legato ai servizi segreti italiani, attraverso il loro capo Alberto Manenti, e con i servizi nigeriani, e perché era amico di Bisignani: e il tentativo di influenzare le sue deposizioni è, per la Procura, la prova più chiara della colpevolezza di Eni.
Per le
agguerrite squadre legali di Shell e Eni e dei loro manager, nulla di tutto questo è provato, se non l'inevitabile pagamento di provvigioni ai mediatori locali. Se ne riparlerà a settembre, quando la parola passerà ai difensori.
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