La riforma è giusta

Come si fa a contestare, ad esempio, l'idea della separazione delle carriere tra giudici e pm, cioè l'esigenza di marcare la distinzione tra giudici e pubblici ministeri per mettere l'accusa sullo stesso piano della difesa?

La riforma è giusta
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Non so se come hanno promesso Matteo Salvini e Giorgia Meloni subito dopo l'assoluzione dell'attuale ministro delle Infrastrutture nel processo Open Arms, la riforma della giustizia, a cominciare dalla separazione delle carriere, avrà davvero un iter più veloce.

Di certo sarebbe una buona cosa perchè verrebbe meno una costante che ha caratterizzato tutti i tentativi di rendere più giusto - il termine non è usato a caso - il sistema giudiziario italiano: negli ultimi trent'anni, infatti, si è avuta l'impressione che accelerazioni, ripensamenti, pause di riflessione sull'argomento da parte del legislatore derivassero anche dall'andamento giudiziario di vicende che coinvolgevano qualche personaggio eccellente. Una sorta di trattativa ombra, non detta, che alla fine garantiva alle toghe lo «status quo» e alla politica magari qualche successo che nel tempo il più delle volte si rivelava effimero per la semplice ragione che alla fine il manico del coltello restava sempre nelle mani della magistratura. Non è un'esagerazione: basta rileggere le memorie dell'ex-presidente dell'Anm, Luca Palamara.

Ragion per cui proprio quando ci sono casi in cui la sfera giudiziaria e quella politica vengono in contatto e dimostrano nell'esito dei processi che il clima è cambiato - vedi l'assoluzione di Salvini e quella del giorno prima di Matteo Renzi sul caso Open - è il momento di mettere un punto a capo: il che significa riformare il sistema giustizia per renderlo più efficace e più giusto nell'immaginario collettivo; ritrovare il modello di equilibrio disegnato dai costituenti per salvaguardare l'autonomia della magistratura dalla politica e viceversa; e avviare con le nuove regole un processo di pacificazione per porre fine ad un conflitto che va avanti da quarant'anni.

In effetti la rivoluzione giudiziaria, o come dicono molti la falsa rivoluzione, è terminata lasciando sul terreno molte vittime.

Ora è l'ora del termidoro: basta pensare alla condanna di pubblici ministeri di grido come Piercamillo Davigo e Fabio De Pasquale proprio per come in alcuni casi hanno interpretato il loro ruolo di magistrati e all'esito favorevole agli imputati di processi squisitamente politici.

Si tratta, quindi, di un'occasione da cogliere senza esitazioni nella consapevolezza che le riforme non sono una rivalsa, né nascono da un'esigenza di difesa (non si tratta di leggi ad personam) ma offrono risposte a lacune e contraddizioni latenti nel nostro sistema.

Come si fa a contestare, ad esempio, l'idea della separazione delle carriere tra giudici e pm, cioè l'esigenza di marcare la distinzione tra giudici e pubblici ministeri per mettere l'accusa sullo stesso piano della difesa?

È una riforma di buonsenso che può essere criticata solo da chi ha cuore solo la corporazione. E anche la responsabilità civile dei magistrati - compresa la valutazione professionale e il danno erariale - è un principio sacrosanto: perché un sindaco o un chirurgo se sbagliano pagano, mentre una toga no? In 14 anni solo in dodici casi i magistrati hanno dovuto rispondere dei loro errori.

E sarebbe necessaria pure una riflessione pure sull'immunità parlamentare: nella nostra Costituzione l'equilibrio tra il potere politico

e giudiziario si reggeva su due contrappesi, l'immunità e l'autonomia della magistratura, venuto meno il primo l'equilibrio è saltato. Rintroducendo l'immunità, in fondo, si rispetterebbe solo la volontà del costituenti.

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