Riforme, il governo sbanda Decisivo l'aiuto di Verdini

La maggioranza scende a 153, ma si salva M5S, Fi e Lega pronti a salire al Quirinale

RomaLa grande riforma renziana avanza ora a ritmi convulsi, ora a singhiozzo, ora a balzi come il canguro che si fa beffe degli emendamenti analoghi. Ora pure a inciampi, come nei due voti segreti su emendamenti respinti a quota 153 e 154. Si dimostra ciò che Verdini sbandiera canterellando da giorni: la maggioranza non c'è più. Meglio, è appesa al suo privatissimo drappello di «volenterosi» (più per la dama che per il re). Ovvero «a Verdini e ai suoi transfughi», per dirla alla grillina.

Neppure il «segnale di dialogo» di Renzi, atteso per tutta la giornata, arriva. Al punto che le opposizioni riunite, dopo aver accarezzato l'idea di un Aventino, aver offerto il ritiro di parte degli emendamenti, chiesto una «pausa di riflessione» e un dibattito serio «per recuperare lo spirito costituente ed entrare finalmente nel merito» (lo dice il capogruppo forzista Romani), meditano di rivolgersi ancora al presidente Mattarella.

L'impressione resta perciò sempre quella di una riforma zoppa. Un tristo avanzare caracollando, colpa della sua tara genetica: la solitudine della maggioranza, che è poi la solitudine senza alternative del premier e degli scherani pronti a tutto (ma solo su ordine del Capo) pur di portare la preda al castello. Così passa l'articolo 7 in mattinata, così l'articolo 10 che vede man mano assottigliarsi la linea Maginot del governo. Avanti a tentoni, tra il fascicolo elettronico, il fascicolo principale e una serie di volumi con emendamenti. Tra ritirati, preclusi e inglobati impossibile capire con che cosa si stia sostituendo la Carta dei Padri costituenti. «Per fortuna che votiamo sempre contro», dice un senatore di maggioranza ormai privo d'orientamento.

Proseguono scaramucce tra i Cinquestelle e il presidente Grasso. Il capogruppo Castaldi vuole spingere fino in fondo sulla scia mediatica del malcontento per il caso Barani-D'Anna e telefona di buon mattino a Grasso. Non è un buongiorno. Il presidente replica appellandosi al regolamento, per tutto il resto - cioè per esprimere la vostra contrarietà - ci sarà il referendum, dice. La risposta avvelenata di Castaldi arriva più tardi dai banchi: «Lei tratta il regolamento del Senato come un mensile di Postal market». Nel pomeriggio, altra lite. Castaldi esagera: «Lei gioca questa partita da arbitro, ma come l'arbitro Moreno (quello di Italia-Corea ai mondiali del 2002, ndr )». Il presidente tutto sopporta, men che questo: «Non glielo consento, il paragone è altamente offensivo».

Al grillino Santangelo, arbitro dilettante, Grasso si rivolge furibondo: «Se lei è un arbitro sa cosa significa quell'espressione!». Alla Favorita di Palermo, stadio caro al presidente, si sintetizza con l'indice e il mignolo rivolti verso il cielo.

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