La risposta all'invasione: una Russia più cinese

E che cosa sta facendo Putin, al di là delle minacce di "durissima reazione" contro l'Ucraina affidate di preferenza al suo poliziotto cattivo Dmitry Medvedev, all'inelegante portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova e al dittatore vassallo della Bielorussia Aleksandar Lukashenko?

La risposta all'invasione: una Russia più cinese
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A quindici giorni dall'avvio della mini-invasione di una provincia russa da parte delle forze regolari ucraine, continua a sorprendere la relativa mancanza di reazione (almeno del tipo che ci si aspetterebbe) da parte di Vladimir Putin. Quella che a buon diritto (a differenza della guerra d'aggressione da lui scatenata contro Kiev ormai due anni e mezzo fa) può essere definita «operazione militare speciale» sta producendo risultati molto nocivi per il regime di Mosca.

Non solo la conquista senza quasi colpo ferire di oltre mille chilometri quadrati di territorio russo, non solo la resa di centinaia di soldati per lo più giovani e impreparati al combattimento, non solo i danni estesi subiti da infrastrutture civili e militari, non solo l'evacuazione forzata di duecentomila civili. Ma soprattutto l'umiliazione personale inflitta dall'esercito del Paese aggredito a un leader che ancorché ormai anziano - sta per compiere 72 anni tiene moltissimo alla propria immagine di invincibile difensore della Patria.

E che cosa sta facendo Putin, al di là delle minacce di «durissima reazione» contro l'Ucraina affidate di preferenza al suo poliziotto cattivo Dmitry Medvedev, all'inelegante portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova e al dittatore vassallo della Bielorussia Aleksandar Lukashenko? Poco o niente, in apparenza. Ma in realtà, non è così.

Da una parte l'umiliato zar fa capire (proprio tramite Lukashenko) che gradirebbe una tregua, nonostante il rifiuto ufficiale di parlare con Zelensky. Dall'altra ed è di gran lunga l'aspetto più importante Putin agisce per trarre un paradossale vantaggio da una situazione imbarazzante. Alza la voce su una presunta guerra alla Russia condotta dai «nazisti» e dall'«Occidente collettivo» (così definisce l'Ucraina sostenuta da Stati Uniti e Nato) e cerca di fare leva sull'antico istinto patriottico del popolo russo usando il nome mitizzato di Kursk. La città nel mirino di Zelensky, che nel 1943 fu teatro di una decisiva battaglia contro le armate di Adolf Hitler, dovrebbe oggi, secondo la sua propaganda, tornare a essere il simbolo della vittoriosa controffensiva contro i nazisti di oggi.

Da una umiliazione, insomma, Putin cerca di ricavare ciò che gli serve per rafforzare il suo regime. Soprattutto, la presa ferrea sulla società russa, che egli vuole proprio come ai tempi di Stalin monolitica e pronta al sacrificio. Per ottenere questo sta chiudendo in queste settimane gli ultimi spazi di libertà in Russia, rappresentati da YouTube e Whatsapp: il suo obiettivo è una Russia chiusa come la Cina di Xi Jinping, non più in grado di ricevere informazioni e modelli di vita occidentali che non siano mediati da uno Stato onnipotente. Vuole giovani generazioni sempre più allineate, imbevute di un nazionalismo guerrafondaio e pieno di odio verso il nostro mondo, pronte a combatterlo in armi.

Vuole, soprattutto, far accettare ai

russi recalcitranti una nuova mobilitazione militare per rimpolpare i ranghi di un esercito falciato ogni giorno al fronte ucraino. Il messaggio è: indietro non si torna, bisogna guardare solo avanti, a un futuro di guerra.

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