Quello a cui stiamo assistendo in Kazakistan è un copione già visto, sia pure con esiti diversi, in Ucraina e in Bielorussia. È la ribellione in massa, che degenera in violenze di piazza, contro autocrati corrottissimi e amici della Russia di Putin. Ribellioni che a Mosca preferiscono etichettare come «rivoluzioni colorate», insinuando che siano fomentate e portate avanti da minoranze estremiste pagate dagli americani, e togliendo così loro qualsiasi legittimità. Non è il popolo che scende nelle strade di Kiev, di Minsk o di Almaty per chiedere libertà, ma solo dei provocatori prezzolati, dice il Cremlino che regolarmente interviene a sostegno degli autocrati contestati. E non importa che siano centinaia di migliaia e che rischino consapevolmente di farsi ammazzare, tali sono la loro rabbia e la loro disperazione: nel cosiddetto «vicino estero» della Russia (ovvero nelle Repubbliche ex sovietiche diventate indipendenti dopo il crollo dell'Urss nel dicembre 1991), se protesti contro un potere corrotto e violento amico di Mosca non puoi essere che un traditore della patria o un terrorista, e la lunga mano di Putin ti raggiungerà.
In Ucraina, la «rivolta del Maidan» che tra il novembre 2013 e il febbraio 2014 infiammò il cuore della capitale Kiev e di altre città finì male per Mosca: il presidente filorusso Viktor Yanukovic, che per vincere aveva truccato le elezioni tentando poi di cancellare un'intesa tra il suo Paese e l'Unione Europea, dovette fuggire in Russia inseguito da quella stessa furia popolare che aveva consentito di resistere al tentativo dei filorussi in armi di mantenerlo a ogni costo al potere. Fu uno smacco per Putin, che incolpò gli americani della ribellione contro «il legittimo presidente» e si rifece in parte occupando con un colpo di mano la Crimea e innescando la secessione armata dall'Ucraina delle province russofone orientali del Donbass. Una brutta storia che non è mai finita, come testimoniano le cronache di questi giorni: ma l'Ucraina è rimasta «dall'altra parte».
In Bielorussia, le elezioni palesemente falsate del 9 agosto 2020 mantennero alla presidenza per la sesta volta consecutiva il padre-padrone Aleksandr Lukashenko, ma fecero esplodere la rabbia popolare. Per mesi, nella capitale Minsk e in tutte le principali città dell'ex Repubblica sovietica alleata di Mosca, ogni sabato scesero in piazza centinaia di migliaia di persone chiedendo le dimissioni del dittatore travestito da presidente. Invano: grazie all'esplicito e concreto sostegno di Putin, la rivolta fu infine schiacciata con brutalità, e la Bielorussia «normalizzata» continua a essere il primo e fedele alleato della Russia.
Un alleato che, insieme ad altri Stati minori dell'ex Urss come l'Armenia, il Kirghizistan e il Tagikistan, si accinge a inviare proprie truppe al fianco di quelle russe nel Kazakistan in rivolta, fornendo così a Mosca il paravento di una «forza di pace internazionale» che maschera la realtà di un intervento militare russo teso a mantenere in piedi l'ennesimo autocrate impopolare ma amico: esattamente come accadde in Cecoslovacchia nel 1968. Perché è questo che sta succedendo anche in Kazakistan, anche se il presidente Tokayev parla di «terroristi addestrati all'estero» e la portavoce del Cremlino denuncia un improbabile mandante americano (anche se è certo che a Biden gli sviluppi kazachi non dispiacciono): a provocare le rivolte sono la scandalosa corruzione di questi regimi, che mantengono in miseria la gran parte della popolazione mentre un'élite a loro fedele vive nel lusso, e la loro pretesa di conservare il potere senza limiti di tempo, usando la violenza con gli oppositori politici.
Il presidente Tokayev giura che non lascerà il Paese e userà la massima forza «contro i terroristi».
In realtà saranno i russi a farlo per lui: a Putin fa orrore la prospettiva di un'altra Ucraina nell'ex Urss, e così come l'ha impedito in Bielorussia, impedirà con ogni mezzo al Kazakistan di finire nel campo occidentale. Lui e i suoi alleati-vassalli la chiameranno «stabilizzazione», e non importa quanti morti costerà.
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