No, non rinnega, non bestemmia. Non è neppure contro Dio. Non è fede contro fede. Non ha un'ideologia. Al funerale di Artin Rahmani, martire di 14 anni, le donne si sono tolte il loro hijab e hanno pianto con «toshmal-e chapi». È un canto di addio dei nomadi Bakhtiari. Questa rivoluzione che non ha bisogno di troppe parole è uno scambio di sguardi, che passa e abbraccia e si diffonde e non si abbassa davanti alla paura e va di cuore in cuore, con un coraggio che non si può misurare e ha l'orgoglio delle donne, la coscienza di uomini che non vogliono nascondersi e le lacrime per questa mattanza che sembra non finire e non risparmia i bambini. È una rivoluzione senza armi, che va avanti mettendo in piazza il corpo, la voce, il canto della rivolta e nella sua forza inattesa ha qualcosa di antico, perché è fatta di carne e sangue. Non è virtuale. Non c'è finzione. Non si preoccupa di avere un pubblico, perché la scelta di dire basta è ancestrale. È lineare, semplice e sgretola le parole degli yatollh, che si difendono rispolverando le formule di una propaganda che giorno dopo giorno è sempre più grottesca. «Il male», urlano. «Il male incarnato dai nemici dell'Islam». «Il male che porta il marchio dei soldi dell'Occidente». È quello che il regime continua a ripetere mentre spara e condanna a morte. Gli uomini in nero di Teheran non vogliono vedere che c'è un punto di rottura, un limite, che rende il potere, qualsiasi potere, non più umanamente sopportabile. Non cerchi neppure una ragione. Dici basta. Dici basta perché non si può ammazzare una ragazza per una ciocca di capelli fuori posto. Dice basta perché tanta arroganza non ha più nulla di sacro o legittimo a cui appellarsi. Non c'è fede. Non c'è tradizione. Non c'è più nulla di umano e sovrumano. È il vuoto del tiranno che vive solo per la sua tirannia.
C'è un nome all'origine di questa storia. Mahsa verrà ricordata come quella Lucrezia, offesa e violentata, che millenni fa spinse i romani a ripudiare il settimo e ultimo re, Tarquinio detto il superbo. Tarquinio come gli yatollh.
Le parole di questa rivoluzione le rubi a Sahar Delijani, lei che è nata in un carcere di Teheran e ha raccontato la sua storia ne L'albero dei fiori viola e adesso la segue giorno per giorno. «Questa non è una festa. Questo è un funerale. Questi sono i bambini. Queste sono le madri. Questa è una nazione in lutto. Questa è una nazione ribelle. Questa è nazione che non si spegne».
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