Il "Salva Milano" divide Sala e il Pd

I dem di Schlein cambiano idea sulla norma edilizia. L'ira del sindaco meneghino

Il "Salva Milano" divide Sala e il Pd
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Galeotto fu il «Salva-Milano». Quel provvedimento studiato per sbloccare le pratiche edilizie oggetto di inchieste della magistratura, divenuto una proposta di legge e già approvato alla Camera, sta mandando in testa-coda il Pd. In pratica, dopo averlo votato insieme con deputati dei partiti di maggioranza, il 21 novembre scorso, di fronte alle pressioni di una certa società civile, del M5s e della sinistra radicale, nel Pd avrebbero cambiato idea. Per diventare legge serve ancora il voto del Senato, non ancora calendarizzato e, soprattutto, diventato incerto. Ma quello che appare più paradossale è che è stata la stessa sinistra - o almeno il suo partito più importante - a dialogare per mesi con il centro-destra per ottenere una legge che ora comincia a non piacere più allo stesso Pd. È stato il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che guida una giunta di sinistra al secondo mandato, a chiedere alla destra di governo di modificare il testo della legge in discussione al Parlamento. Cosa che è avvenuta con un'inedita unità d'intenti tra leader della maggioranza, quali lo stesso vicepremier Matteo Salvini, e il più importante sindaco appoggiato dal Pd. E ora che la questione è arrivata in dirittura d'arrivo (e, chissà se è un caso, adesso che si parla di Sala come un possibile futuro «federatore» della sinistra) è proprio all'interno del partito di Elly Schlein che nascono i dubbi. Una situazione che ha fornito a Salvini un assist straordinario: «A Sala ho dato la massima disponibilità e questa norma l'abbiamo scritta insieme - ha detto sabato a Milano - se poi il Pd cambia idea ogni settimana me lo dica perché non è una legge fatta per me, bensì per migliaia di famiglie in Italia con la procura di Milano che ha sequestrato diversi palazzi». E se Salvini può ora parlare così è perché all'origine del Salva-Milano che tanto sta a cuore a Sala c'era un'idea della Lega.

Come noto la questione ha origine con le inchieste che, nel capoluogo lombardo, hanno riguardato decine e decine di pratiche edilizie, paralizzando di fatto la crescita della città e creando i problemi alle famiglie di cui parla Salvini. Di qui la determinazione sia del sindaco, sia del centro-destra (liberista per costituzione) per sbloccare la questione attraverso un provvedimento che chiarisse - in estrema sintesi - i concetti di «ristrutturazione edilizia» finiti sotto la lente della procura. Così ha visto alla luce la prima proposta di legge, che aveva come firmatari quattro esponenti dei partiti di maggioranza (Fdi, FI, Lega e Noi Moderati). Un provvedimento che mirava essenzialmente a sanare le situazioni in essere e che, in quanto tale, non piaceva né a Sala, né in prospettiva al Pd, che lo vivevano come un condono. Di qui la determinazione del sindaco ad andare oltre. Alla fine è arrivato l'emendamento risolutivo, presentato dall'allora capogruppo di Fdi alla camera Tommaso Foti, che introduceva il concetto chiave di «interpretazione autentica» della legge vigente in materia di urbanistica ed edilizia. In altri termini la proposta di sanatoria ad hoc di matrice leghista veniva superata da una norma che consente di applicare le regole milanesi a tutto il territorio nazionale, anche per il futuro. Era quello che voleva Sala: una legge che più liberista non si può.

Ed è quello che - a torto o a ragione - ha scatenato l'indignazione delle frange meno riformiste dell'opposizione: dalla campagna sul Fatto, all'appello ai senatori firmato da 140 intellettuali per lo più di area Dem; dalla contrarietà di un deputato Pd come Roberto Morassut, a quelle vere o presunte della senatrice Cristina

Tajani, di osservanza schleiniana.

Sala, infuriato all'ipotesi di un voto contrario, sarebbe in contatto costante con il capogruppo Pd al Senato Francesco Boccia. E intanto ha lanciato velate minacce: «Vedremo le conseguenze».

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