Salvini tira dritto su Savona: "Basta passi indietro. O si parte o si vota"

"Frattura tra il palazzo e il popolo". Aut aut Di Maio: "24ore per chiudere"

Salvini tira dritto su Savona: "Basta passi indietro. O si parte o si vota"

Eppure c'è del metodo in questa follia. Logica stringente che se non farà di Matteo Salvini un Amleto roso dai dubbi - l'uomo fa mostra di non averne - almeno lo determina coerente leader «sovranista». Ennesimo Davide che sfida il Golia teutonico, pur sapendo benissimo che non ci sarà il gol di Rivera a nove minuti dalla fine e che l'Italia resta, per i circoli finanziari che muovono pedine sulla scacchiera Ue, un Paese a sovranità limitata. In virtù del suo debito, come vuole lo spirito di questo tempo mercantilista fuori controllo.

È perciò un Salvini rinfrancato e determinato, quello del giorno dopo l'«arrabbiatura». Sicuro di non tornare indietro, deciso a giocare fino all'ultimo la carta delle elezioni per invertire la rotta di un Quirinale che, nel quartier generale leghista, viene considerato ancora succube dei tedeschi, come ai tempi di Napolitano e della «congiura» del 2011 che costò all'Italia la fine dell'ultimo governo eletto dal popolo. «O si parte o si vota. Passi indietro la Lega ne ha già fatti abbastanza... tutti quello che potevamo fare», diceva il capo del Carroccio al termine della riunione-lampo convocata ieri pomeriggio in via Bellerio. «Stasera - continuava - daremo a Conte i nomi della Lega che sono pronti a fare i ministri... non ne faccio una questione di nomi e cognomi ma di rispetto del voto degli italiani». Lista che poi in effetti è stata consegnata: «Tempo scaduto, non tratto più».

A muso duro. Un po' come il collega Di Maio che in serata sbuffava: «Abbiamo già perso troppo tempo, o si chiude in 24 ore o lasciamo perdere. Permetteteci di partire, basta tenerci a bagnomaria». Il conflitto di poteri con il Quirinale è senza precedenti, ma Salvini ha il mandato dai suoi - alleati grillini compresi, almeno finora - per giocarsi la partita fino in fondo. Per dimostrare, questa la tesi, non di voler piegare Mattarella a un diktat, bensì che il presidente della Repubblica italiana ha il dovere di rispettare la sovranità popolare degli italiani. Dovere che viene prima degli interessi degli alleati, del rispetto dei trattati, degli interessi dei risparmiatori, grandi o piccoli che siano. «L'unico rischio che vedo è l'ulteriore frattura, distanza tra i palazzi del potere e il popolo. Se qualcuno rallentasse ancora il processo di cambiamento e facesse saltare un lavoro che ci è costato quindici giorni di sacrificio... tornerei a essere arrabbiato. Ora sono soltanto determinato».

L'insistenza sul nome di Paolo Savona per l'Economia sarà pure bandiera d'orgoglio ma soprattutto, questo il punto, una sorta di «ragione sociale» per chi ha promesso di far riacquistare peso all'Italia. Salvini non avrebbe mai voluto trasformare la questione in un braccio di ferro sulle prerogative del Quirinale, anche se i suoi ragionavano sul fatto che «a norma di Costituzione il presidente nomina i ministri su proposta del premier, ma dov'è scritto che detiene l'ultima parola sulla scelta?». Tra l'altro, ricordano, il principio della sua irresponsabilità per gli atti compiuti nelle sue funzioni fa capire come non possa andare al di là di una moral suasion. Ma per la Lega sovranista era (e resta) più pressante l'idea di dare uno schiaffo al potere costituito dell'Euroburocrazia, che di piegare Mattarella. «Giornali e politici tedeschi insultano: italiani mendicanti, fannulloni, evasori fiscali, scrocconi e ingrati. E noi dovremmo scegliere un ministro dell'Economia che vada bene a loro? No grazie!» scriveva Salvini su Facebook fin dal mattino. Quanto però convenga alla Lega «morire per Savona», facendo cessare la legislatura anzitempo, resta dubbio.

Salvini sa che le armi di pressione di Golia sono tante, e non tutte gradevoli per l'elettorato leghista.

«Dopo lo spread, il sistema e i soliti poteri ci minacciano con i barconi. Ma non abbiamo paura, e non molliamo!», era un altro dei tweet. Che diventi o meno il primo tema di una prossima velenosissima campagna elettorale, dicevano i leghisti, spetterà solo al Quirinale deciderlo.

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