Il presidente Draghi, benché ieri si sia limitato a un discorso di circostanza, sa benissimo che Israele è un Paese speciale, dove anche quando si parla di rapporti bilaterali, di imprese tecnologiche, mediche e agricole, non si esercita solo la diplomazia, ma si imboccano scelte cruciali. Qui, quello che si tesse è sempre parte di un disegno capitale, che investe interessi diversi, scuote il mondo arabo, tocca la vicenda bellica e i rapporti con Putin, è all'attenzione di Biden in arrivo qui a luglio, e guarda negli occhi il drago, l'Iran degli Ayatollah.
Draghi tratta qui in questi giorni di energia, ma così facendo anche di pace e guerra; partecipa (e non a caso è qui anche la von der Leyen) ai complicati rapporti fra il piccolo Stato più discusso del mondo, e l'Europa, da sempre molto ambigua, ma adesso tutta protesa a cercare soluzioni dettate dalla crisi russa, brutale, violenta, che può cambiare tutto. Draghi è un moderato, cerca la via di mezzo, ma ciò che accade in relazione a questo piccolo fazzoletto di terra accaldato invece divide il mondo in due, ha un valore geopolitico essenziale. Israele è sul confine con la Siria, dai tempi di Obama il primo esperimento di aggressione e occupazione per la Russia, che vi ha tenuto come gauleiter il regime assassino di Bashar Assad e ha favorito, pur ponendole alcuni limiti, la diffusione su quel territorio di basi iraniane e degli Hezbollah, tutti quanti protesi alla distruzione di Israele. L'Iran ha anche nel frattempo mantenuto Hamas, usando la Siria russificata come base. Israele è un Paese che fa il miracolo di mantenere un'economia fiorente e una democrazia viva e litigiosa anche in stato di guerra e di pericolo continuo.
Al patto che dovrebbe legare Italia, Europa e Israele sullo sviluppo di forniture energetiche e tecnologie avanzate, si contrappone un altro patto, quello fra Teheran e Mosca che hanno firmato per lo scambio energetico reciproco. Questo mentre l'Iran costruisce la bomba atomica, e la Russia le ha costruito la struttura di Busher. Ibrahim Raisi ha scelto la Russia come principale interlocutore, la firma vale 20 anni. Il più famoso precedente è il famoso accordo «oil for goods» da 20 miliardi, firmato nel 2014- L'Iran ha firmato anche un accordo venticinquennale con la Cina nel 2021.
Ma dall'altra parte, Draghi col cannocchiale di Israele vede un grande schieramento che, con lo sponsor americano e lo sbocco est-mediterraneo, disegna un accordo incentrato sull'energia e anche sulla sicurezza. Serve al progresso, al benessere, ma anche a garantirsi dalla prepotenza iraniana, russa, cinese, degli Hezbollah e anche di Hamas. Israele è lo stupefacente perno di questa nuova avventura. Ci sono anche Emirati e il Bahrain, paesi ricchi d'olio, mentre si formava un consorzio UAE-Egitto. Intanto è andato avanti a grandi passi un rapporto degli Usa e di Israele con l'Arabia saudita, un sogno che diviene realtà. La Turchia in questo panorama è ancora incerta, su filo del rasoio fra la ricerca di uno spazio nel Mediterraneo e l'istinto antioccidentale e antisraeliano di Erdogan.
Alla fine è su una scelta di campo che si disegneranno le future scelte energetiche: vedremo se il presidente sceglie con decisione l'ancora di salvezza legata agli Accordi di Abramo, allargati all'Arabia Saudita, sostenuti con decisione dagli Stati Uniti difesi da Israele, e al futuro dell'East Med.
La questione dell'energia disegna, scrive il vicepresidente dell'Atlantic Council Alexander V. Mirtchev un «megatrend» che cambia la storia del mondo, dalla decisione dell'Impero britannico di fondare porti di rifornimento di carbone per le navi, fino alla invasione russa dell'Ucraina.
Adesso il sistema internazionale nel suo insieme si sveglia alla necessità, che era chiara ormai dall'invasione della Crimea, di diversificare l'approvvigionamento energetico, e lo deve fare in una sorta di sconosciuto stato di guerra. Anche l'elegante presidente Draghi.
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