Tutti tranne Matteo: alla fine il centrosinistra è pronto a imbarcare chiunque, dal pasdaran verde anti-rigassificatori (ma senza voti) Bonelli alla sinistra fieramente anti-Draghi di Fratoianni & Co. a Di Maio a Leu al misterioso «Demos», fino ovviamente a Emma Bonino e Carlo Calenda.
Ma Matteo Renzi no, non se ne parla: ex segretario del Pd, ex premier, regista diabolico (secondo nemici e ammiratori) dei passaggi fondamentali della legislatura, dallo spettacolare capitombolo salviniano del Papeete con la nascita del governo rosso-verde all'affondamento del Conte bis per aprire la strada a Mario Draghi. Ma nell'alleanza progressista non c'è posto per lui: troppo ingombrante, troppi rancori e sgambetti seminati lungo la strada, dallo «stai sereno» che precedette la caduta del governo Letta alle liti annose con Calenda alla radicata antipatia reciproca con Emma Bonino che gli ha sbrigativamente chiuso la porta: certo, è stato «un buon premier», certo «è abile nel gioco politico, ma in coalizione con noi «no», non se ne parla. Certo, Enrico Letta ancora ieri sera ripeteva: «Nessun veto, le nostre porte sono aperte e il dialogo pure», mentre dal Pd si faceva circolare la voce che anche al leader di Italia viva fosse stato offerto un «diritto di tribuna», ma che lui aveva declinato l'offerta così: «No, grazie, noi non siamo Di Maio».
«Io la trovo una vergogna, tutti si riempiono la bocca di agenda Draghi ma senza Renzi l'agenda Draghi non ci sarebbe mai stata», protesta una parlamentare dem. Ma tant'è.
Renzi reagisce con piglio battagliero: «Abbiamo voluto Draghi al governo, soli contro tutti. Oggi non ci alleiamo con chi ha votato contro Draghi. Prima della convenienza viene la politica. Quello che gli altri definiscono solitudine, noi lo chiamiamo coraggio. Pronti, ci siamo». Si è persa, dice, «una grandissima occasione per fare un Terzo polo a doppia cifra, e rendere più difficile la vittoria della destra. Ma gli amici di Azione hanno scelto altro: auguri. Noi siamo signori, quindi evitiamo le polemiche». Del resto, aggiunge, «ognuno fa i suoi conti: da una parte c'è la necessità di raccontare un progetto credibile ai cittadini, dall'altra quello di dire se mi metto insieme sono più tranquillo perché so quanti seggi scattano».
Calenda, messo sotto accusa sui social dai renziani per la «resa» al Pd risponde piccato: «Amici di Italia viva, io capisco la vostra scelta di andare da soli. Però la morale sul Pd da tutte persone che sono state nel Pd decenni e su Di Maio da persone che ci hanno fatto un governo politico, anche no. Buona strada».
Intanto, il segretario dem è alle prese con il dramma dei «cespugli» che, a differenza del tandem Azione-Più Europa, non hanno alcuna certezza di superare il quorum e quindi eleggere i loro rappresentanti. Il dramma principale è quello di Luigi Di Maio, che ha la quasi certezza («la certezza», confermano al Nazareno) di restar tagliato fuori con il suo «Impegno Civico» frettolosamente fondato insieme a Tabacci. Ieri sera Letta, in un malinconico (e burrascoso) faccia a faccia, gli ha offerto il paracadute di una candidatura nelle liste Pd. Ma al ministro non basta. Fuori dai collegi uninominali di coalizione resteranno anche i Verdi-Sinistra italiana di Fratoianni e Bonelli. Che quindi se la giocheranno con la loro lista «cocomero» («verde fuori, rossa dentro») e con la lotteria del quorum e delle candidature proporzionali.
«Chiediamo un incontro a Letta per verificare se ci sono ancora le condizioni per un accordo», hanno tuonato ieri dopo la notizia dell'accordo tra Pd e Calenda, sulla base di un documento programmatico inzeppato di temi per loro indigeribili, dal sì a termovalorizzatori e rigassificatori ai proclami di fedeltà alla «agenda Draghi».L'incontro sarà oggi, poi la via crucis di Enrico Letta con gli alleati si chiuderà, e si aprirà quella - non meno stressante - della scelta dei candidati dem.
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