La via da perseguire è «prendersi cura» del malato, non certo quella «dell'eliminazione fisica». Siamo di fronte a un «suicidio assistito» e il parere del Comitato etico delle Marche rappresenta «una grande sconfitta». È netta la posizione di Scienza e vita, l'associazione che collabora in modo organico con la Cei per i temi della bioetica, di fronte al pronunciamento sul caso del signor Mario, tetraplegico da 11 anni, che ha chiesto di morire. In questa intervista al Giornale, Maurizio Calipari, docente di Bioetica e portavoce nazionale di Scienza e vita, spiega la posizione dell'Associazione.
Calipari, che cosa pensa di quel parere?
«Si tratta di una interpretazione molto ampia ed estensiva, che potrebbe essere in questo modo assolutamente aperta a qualunque altro tipo di trattamento e di cura. È una scelta che rappresenta una profonda sconfitta per tutta la nostra società, perché a una persona in sofferenza e segnata da condizioni di malattia profonda, non c'è dubbio che dovremmo cercare di mettere a disposizione tutti i presidi per aiutarla a portare con dignità e serenità la sua condizione. È anche vero che nel caso specifico, questa persona rifiuta qualunque percorso di cure palliative, ma riteniamo che non sia questa la direzione che uno Stato, e quindi una comunità, debba prendere. Una persona in sofferenza non va eliminata, va sostenuta e aiutata, anche se chiede di morire come in questo caso. Questa sorta di grido, di disperazione, potrebbe trovare delle risposte di tipo solidaristico che aiutino il malato a riappropriarsi della dignità della propria vita, non ad accompagnarlo in maniera sbrigativa e deresponsabilizzante verso la morte».
Siamo di fronte a un vero e proprio suicidio assistito?
«Certamente. Manca ancora una tappa tecnica, ovvero un medico che metta al vaglio delle autorità competenti un preciso protocollo di esecuzione, che indichi quale veleno/farmaco letale utilizzare, in che modo somministrarlo e con quale quantità».
Di fronte a una situazione di dolore simile a quella di Mario, cosa dovrebbe fare un familiare?
«Per noi l'unica prospettiva di vera solidarietà umana è il prendersi cura del malato, di chi soffre, in tutti i modi possibili. Immaginare che questa solidarietà possa tradursi in un suicidio assistito, per una persona che naturalmente non andrebbe verso la morte (non è un malato terminale) è una sconfitta. Capiamo la sofferenza, ma il malato è da accompagnare, sostenere, trattare, con una vera assunzione della cura verso questa persona. Accompagnarlo a morire non significa niente. Aggiungo anche che, senza dei veri paletti, qualunque sofferenza, pur non essendo terminale, potrebbe portare alla richiesta di morire».
Dunque si può ipotizzare che un malato psichiatrico, o chi soffre di una forma grave di depressione, possa chiedere allo Stato di morire?
«Se non mettiamo dei paletti legati a una oggettiva condizione di malattia che porta già naturalmente verso la morte, non ha senso parlare di queste cose perché diventa un modo di interpretare una vita per cui tutte le volte che il soggetto dice la mia vita non è degna di essere vissuta, chiede allo Stato di aiutarlo a morire. Non credo sia questo il compito della medicina, lo trovo estremamente contraddittorio. La via da perseguire non è certo quella dell'etichettare la vita come non degna e dunque aprire alla morte procurata».
Quale è la vostra richiesta allo Stato?
«Auspichiamo che si possa arrivare a un chiarimento. Ci sono disegni di legge già in discussione in Parlamento che noi non condividiamo perché vanno tutti verso l'eutanasia. Chiediamo almeno delle definizioni più chiare.
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