Nel quadro europeo vi sono molte regioni animate da spinte separatiste. Oltre all'unità di Spagna e Regno Unito (contestata da catalani e scozzesi), è certo a rischio la tenuta del Belgio, dato che l'indipendentismo fiammingo va crescendo di elezione in elezione. E situazioni calde esistono anche da noi, sebbene non sia facile dire quale sia la Scozia d'Italia e quale potrebbe essere, insomma, «l'anello che non tiene»: il luogo di disgregazione dell'unità costruita a metà Ottocento. Di primo acchito, si potrebbe pensare che le maggiori analogie con la situazione scozzese si ritrovino in Sicilia, che all'indomani della Seconda guerra mondiale seppe giocare la carta della propria diversità e conquistò un'autonomia particolarmente forte. Per giunta, se la Scozia ha i pozzi di petrolio, in Sicilia si pretende di tenere per intero le accise della raffinazione. Ma le analogie finiscono qui, dato che la dipendenza dell'economia siciliana dai soldi pubblici è talmente forte che ogni progetto separatista rischia di essere percepito dai più come autolesionista.
Un discorso in parte diverso merita la Sardegna, dove spiccato è il senso di un'identità ben definita. Fino a oggi, però, l'indipendentismo sardo ha patito un'attitudine alla chiusura etnico-culturale che gli ha impedito di fare presa sulla società più dinamica. Ora sta nascendo anche un indipendentismo liberale, che associa autogoverno e libero scambio, ma la strada da compiere resta lunga.
In questo quadro è normale che le spinte maggiori alla disgregazione si registrino al Nord. E così è significativo che a Trieste nei giorni scorsi siano scese in strada migliaia di persone a sostenere che lo statuto della città giuliana all'interno dei confini italiani è illegittimo, dato che il Trattato di Pace di Parigi del 1947 - alla fine della Seconda guerra mondiale - aveva creato un'entità indipendente che non è mai stata davvero cancellata.
A ben guardare, però, la Scozia d'Italia (o la nostra Catalogna, e si preferisce) è con ogni probabilità il Veneto. È qui che la volontà di andarsene è più radicata: e per una serie di ragioni. Sul piano storico e culturale, Venezia può ricordare al mondo di avere avuto dieci secoli di storia indipendente. Pure dal punto di vista linguistico - da Goldoni a Marin, a Zanzotto - quello veneto è un idioma che vanta una bellissima letteratura e che tutt'oggi è praticato quotidianamente. Ma c'è di più.
I veneti vengono da una storia recente assai difficile, fatta di povertà ed emigrazione, e nel corso degli ultimi trent'anni hanno avuto una crescita significativa, spesso ricondotta al cosiddetto «miracolo del Nord-Est». Questa stagione, però, ormai è chiusa. La popolazione si trova quindi a fare i conti con un passato remoto molto glorioso, un passato meno remoto piuttosto difficile, un passato prossimo di sviluppo e floridezza, e un presente assai cupo. La consapevolezza di essere penalizzati da Roma (di dare all'Italia molto più di quanto non si riceva) spinge così i veneti a sognare una rinascita del Leone di Venezia. E non si tratta solo di sogni.
Da qualche tempo il mondo indipendentista veneto è davvero attivo e dinamico. Un'iniziativa come quella di Plebiscito 2013 ha richiamato su Venezia l'attenzione di tutti e anche a seguito di ciò il Consiglio regionale ha approvato due leggi che mettono al centro proprio il tema dell'autodeterminazione. Nelle scorse settimane il governo Renzi ha chiesto alla Consulta di bloccare queste norme, ma la battaglia - non tanto giuridica quanto politica - si annuncia davvero dura.
Se il Veneto è pronto allo scontro con Roma, i vicini lombardi sonnecchiano. Nonostante siano i più penalizzati dall'unità, oggi non appaiono particolarmente attivi, ma anche qui il vento catalano e scozzese potrebbe presto produrre i suoi effetti.
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