Un importante banchiere italiano al vertice di un istituto molto internazionale confessa che «vedere alcuni grandi e storici gruppi industriali passare sotto il controllo degli stranieri non fa piacere». È la conferma, da fonte assai autorevole, che per quanto ci si possa avvicinare al tema delle acquisizioni delle aziende italiane senza ideologie, da liberali, o per quanto ci si sforzi giustamente di guardare al mercato in termini globali, certe notizie non fanno piacere. Apprendere che l'Italcementi dei Pesenti diventa tedesca (per citare il caso di ieri), dopo che la Pirelli sta per diventare cinese e l'Indesit dei Merloni è già stata ri-immatricolata Usa (per ricordare storie degli ultimi mesi), suona come una sconfitta italiana.
Unica soddisfazione è il toccare con mano che, in fondo in fondo, questo Paese non è così alla rovina, se alcuni dei suoi gioielli industriali fanno così gola a tedeschi, cinesi, americani. Ma anche giapponesi (le Ansaldo) o francesi (il lusso). Nello stesso tempo, però, l'Italia e gli italiani non riescono a rendersene conto. Così almeno ci pare di capire in una giornata come quella di ieri, nella quale l'Alitalia - altro simbolo del nostro boom economico - minaccia di lasciare Fiumicino se lo scalo della capitale non si decide ad investire per rendere adeguate le proprie strutture a una grande compagnia, in piena fase di rilancio, che punta tutto sul lungo raggio. Quella stessa Alitalia nella quale gli arabi di Etihad hanno appena avuto il coraggio di investire 560 milioni, per avere il 29%, dunque non la maggioranza, dopo che negli ultimi 40 anni - calcoli di Mediobanca - la compagnia è costata 7,5 miliardi di euro ai suoi contribuenti.
Allora ci pare tanto pretestuoso quanto ipocrita piangere sulle società vendute allo straniero, quando è lo stesso straniero che, entrato in minoranza per rilanciare una compagnia nazionale, si trova lui stesso nelle condizioni di lamentarsi delle infrastrutture del Paese fino a minacciare di fare scelte diverse. E non sono solo le infrastrutture: restando in tema Alitalia si potrebbe allargare il discorso alle nuove tasse di transito minacciate per gli aeroporti, piuttosto che al caos del sequestro del molo D di Fiumicino dopo l'incendio del maggio scorso.
Allora il caso Alitalia da un lato e quello Italcementi dall'altro, al netto naturalmente di ogni semplificazione e fatte salve le singole specificità, segnalano che il deficit di sistema-Paese continua a crescere. E se per Massimo Mucchetti, presidente della Commissione Industria del Senato, la grande responsabilità è quella del capitalismo italiano, fragile e incapace di affrontare cambiamenti generazionali e crescita dimensionale, a noi pare che prima ancora conti la latitanza della politica.
Sempre più interessata, in questi ultimi decenni, a difendere modelli di intervento dello Stato nell'economia, che a creare le condizioni per l'«autodeterminazione» di quest'ultima; e più concentrata a inventarsi sempre nuovi Iri (l'ultimo è il caso Cdp), piuttosto che a varare politiche per i trasporti, l'ambiente, l'energia o l'industria.
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