Rifondazione del Pd ma senza Letta: "Non mi ricandido". Da Bonaccini a Schlein caccia al successore

Il segretario sconfitto resta da "traghettatore" in vista del congresso che sceglierà il suo erede. Accuse al "fuoco amico" degli ex alleati Dem divisi sulla possibile nuova intesa con i 5s. In pole position i leader dell'Emilia-Romagna

Rifondazione del Pd ma senza Letta: "Non mi ricandido". Da Bonaccini a Schlein caccia al successore

Il Pd, frastornato dalla batosta, reagisce nel modo più automatico possibile: prende tempo.

I numeri sono impietosi: ci si è fermati a quota 19 per cento (la stessa del 2018) ma con un milioncino di voti in meno causa astensionismo. Il segretario Enrico Letta si presenta alle telecamere in tarda mattinata: prima ha aspettato di sentire cosa dicevano Matteo Salvini (l'altro grande sconfitto) e Carlo Calenda (possibile interlocutore, ma chissà, perché di mezzo c'è Renzi). Ma soprattutto ha fatto lunghe consultazioni notturne e mattutine con colonnelli e capicorrente, tra i quali la preoccupazione personale è che parta una nuova «rottamazione» del gruppo dirigente romano, con l'Opa dell'emiliano riformista Stefano Bonaccini e del «partito dei sindaci». È il fantasma di Renzi (vivo e vegeto anche nel nuovo Parlamento) che si riaffaccia sulle macerie della «ditta» frastornata dalla sconfitta.

La notte di domenica si parlava di dimissioni, invece (con accordo del solito «caminetto interno dei big) arriva il colpo di freno: ci sarà un congresso, di qui a svariati mesi, in quella sede (presumibilmente a marzo) Letta si presenterà dimissionario e «non mi ricandiderò». Nel frattempo si useranno i mesi così guadagnati per trovare accordi interni (ci sono un po' di posti da utilizzare per rinsaldare alleanze tra big: capigruppo, vicepresidenze delle Camere, commissioni di garanzia eccetera) e scegliere un nuovo leader concordato. Letta ha in mente un'operazione già benedetta da Romano Prodi: Elly Schlein, donna, giovane, cool, molto di sinistra, un filo americana («la Ocasio Cortez dei poveri», la definisce un dirigente che politicamente non la apprezza granché), innamorata del defunto «campo largo», ossia l'alleanza con i grillini. E sufficientemente inesperta di politica da poter essere «indirizzata» dai capicorrente. L'accordo su Schlein è tutto da costruire: ci sono ambizioni personali: il vice di Letta, Peppe Provenzano, pensa di poter essere lui il candidato segretario che sposta il Pd verso una sinistra filo-grillina. Dario Franceschini sta a guardare ed evita di esporsi prima di capire come si sposteranno gli equilibri di potere interni. Anche Lorenzo Guerini e Base riformista sono molto prudenti: sulla carta apprezzano Bonaccini, ma prima di smontare l'assetto interno «deve dimostrare di essere capace di costruire una squadra larga e dire cosa vuole fare del partito e come», dicono.

I vari Zingaretti, Bettini, Boccia, per non parlare dei Bersani e D'Alema, sono già in fila all'uscio di Giuseppe Conte. Orlando è quello che dà l'altolà più esplicito a Bonaccini: «Davvero qualcuno pensa che da una sconfitta di questa portata si esca con la contrapposizione centro-periferia ripetendo la litania contro le correnti?». Invece, asserisce, bisogna rompere «la spessa coltre di moderatismo» e di «riformismo senza connotazioni» e riscoprire la «radicalità». Ergo, chiosa critico il siciliano Fausto Raciti, «consegnarci a una sorta di federazione a leadership contiana». Anche Letta, del resto, sia pur additando Conte a responsabile della vittoria della destra con la rottura sul governo Draghi, afferma che è «assolutamente necessaria una convergenza all'opposizione» con i 5S, un'alleanza con loro alle prossime regionali di Lazio e Lombardia e una rinuncia alla «logica dell'autosufficienza», auspicando che il suo passo indietro dalla segreteria «renda più facile» la riconciliazione.

Conte replica sprezzante che lui del Pd non si fida e che prima di concedere udienza vuole capire chi lo guiderà e imporre le proprie priorità programmatiche alla Cetto Laqualunque. Ma in casa dem la spinta verso l'abbraccio con i grillini, anche in condizioni di subordinazione alla loro agenda populista, è fortissima, quanto il timore della ditta di aprire le porte a una nuova egemonia «renziana», sia pur per interposta persona.

Bonaccini, del resto, ha sempre rivendicato di aver vinto senza 5S e di governare serenamente con una coalizione che comprende i renziani e Azione: «E l'Emilia - rivendica - è l'unica regione dove il Pd è ancora il primo partito, e mettendo insieme i consensi dei partiti della nostra coalizione manteniamo le stesse percentuali», pur in una «prova così complicata a livello nazionale».

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