La sfida allo Stato e il manifesto politico "Trattati da canaglie, Sicilia terra oppressa"

Il boss: "Bugie sul nostro popolo. È un onore essere incriminati"

La sfida allo Stato e il manifesto politico "Trattati da canaglie, Sicilia terra oppressa"

Un po' padre deluso, un po' boss orgoglioso. E soprattutto figlio conclamato dell'eterna lagna sulla Sicilia invasa e sfruttata. Quello che il grande Gaetano Salvemini chiamava «meridionalismo piagnone» ha ora una nuova star: Matteo Messina Denaro, il padrino di Castelvetrano finito in ceppi il 16 gennaio dopo trent'anni di latitanza.

Che nei suoi pizzini (copyright Bernardo «Binnu» Provenzano), ovvero i messaggi inviati alla sorella Rosetta, alle disposizioni operative e alle confidenze sulle amarezze di padre unisce il racconto straordinario della sua visione del mondo. È una weltanshauung che parte da lontano, che denota qualche lettura non banale, e che approda a una sorta di profezia finale: «Un giorno, ne sono convinto, tutto ciò sarà riconosciuto e la storia ci restituirà quello che ci hanno tolto in vita».

Che l'ultimo fuggiasco si fosse costruito nel corso degli anni una sua mitologia personale lo avevano raccontato già in buona parte gli arredi e i poster trovati nel suo ultimo covo. Al feroce scannacristiani piaceva immaginarsi come Marlon Brando, «il padrino sono io», diceva la calamita appesa al frigo. Piaceva sentirsi una belva nella giungla, come quelle rappresentate nei poster attaccati alle pareti. Ora, in questa autorappresentazione un poco paranoica, fa irruzione anche l'ultimo ruolo: il vendicatore di una terra oppressa.

«Essere incriminati di mafiosità a questo punto lo ritengo un onore... Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie, trattati come se non fossimo della razza umana». Così, il 15 dicembre 2013, Messina Denaro commenta con la sorella Patrizia e il nipote Francesco una retata antimafia. Per il boss, la lotta a Cosa Nostra da parte dello Stato significa lotta all'intera Sicilia, ai siciliani tutti. «Siamo diventati una etnia da cancellare. Eppure siamo figli di questa terra di Sicilia, stanchi di essere sopraffatti da uno Stato prima piemontese, poi romano, che non riconosciamo».

Decenni di connivenze tra Cosa Nostra e Stato, di agganci nelle istituzioni, di banchieri e politici collusi, di esattori punciuti, di appalti pubblici divorati dai capimandamento e dai loro «colletti bianchi», per Messina Denaro sembra non siano mai esistiti. Il boss racconta di uno scontro frontale immaginario, di una contrapposizione netta che purtroppo non c'è mai stata: e infatti lui è rimasto indisturbato per tre decenni.

Per il suo affresco Messina Denaro sembra rispolverare persino l'utopia cinica dell'indipendenza siciliana, nel cui nome i suoi predecessori aprirono la strada agli yankee della Settima Armata. «Siamo siciliani e tali volevamo restare. Hanno costruito una grande bugia per il popolo. Noi il male, loro il bene. Hanno affamato la nostra terra con questa bugia. Ogni volta che c'è un nuovo arresto, si allarga l'albo degli uomini e donne che soffrono per questa terra, parte di una comunità che dimostra di non lasciar passare l'insulto, l'infamia, l'oppressione e la violenza».

Nella sua narrazione spariscono le zone grigie, le complicità che lo hanno aiutato. Ma svanisce pure l'altra Sicilia, quella di cui pure conosce bene l'esistenza, la società che non si arrende, che si ribella. Come se non esistesse. Per Messina Denaro la Sicilia è la mafia e la mafia è la Sicilia, gli accusati di mafia sono i martiri di una terra oppressa. «Questo siamo e un giorno, ne sono convinto, ci sarà riconosciuto».

Sono «inquietanti e eversive», le frasi di Messina Denaro, come scrive il giudice Montalto nell'ordinanza che ha mandato in cella la sorella del boss? O sono i deliri di un criminale mitomane? O sono invece la versione romanzata, affidata proprio per venire trovata e pubblicata, di una storia cui nemmeno lui crede davvero? Ci ha campato da quando era un giovane rampollo d'onore, facendo accordi e affari con la parte buia di quello Stato di cui oggi si proclama vittima.

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