
Il giorno dopo fa un inspiegabile e strano effetto sentir parlare di ictus emorragico cerebrale, deficit neurologico e collasso cardiocircolatorio. Quasi che quelle note cliniche, redatte diligentemente nell'Atto di constatazione della morte di Francesco, non servissero a spiegare il suo addio. Cose a malapena (e non sempre) utili a spiegare e soprattutto ad accettare i decessi della nostra quotidianità, non certo quelli di un Pontefice. Perché, nonostante tutti gli sforzi fatti da Jorge Bergoglio per rendere comuni anche i momenti decisivi della sua esistenza, il ritorno alla casa del Padre di un Papa è tutta un'altra cosa. Se ne facciano una ragione i credenti e perfino gli atei: perché, paradossalmente, è stato proprio Francesco a darne un'ulteriore testimonianza facendo della sua malattia e quindi della sofferenza, testimonianza di una vita che è più forte anche della morte. Certo, aveva avuto un esempio gigantesco e al limite dell'eroico in Papa Wojtyla che proprio nel vincere quell'infermità del corpo aveva dimostrato allo stesso tempo tutto il suo essere uomo e l'essere oltre l'uomo. Nulla di divino, il semplice racconto di quanto succede ogni giorno negli ospedali e nelle case che ospitano malati e infermi, capaci di affrontare il male con la stessa grandezza d'animo. Quella che spinse un anziano Benedetto XVI a dire che «il Signore mi ha tolto la parola, per farmi apprezzare il silenzio». Quello dove si ascolta meglio il Logos: il suo verbo, ma anche quello del nostro prossimo. E non a caso proprio dalla sua uscita dall'ospedale dopo il ricovero del 14 febbraio, Bergoglio ha dimostrato quanto mai prima il bisogno e quasi una sete di incontrare persone. Tanto che le sue ultime parole sono andate all'infermiere personale Massimiliano Strappetti, ringraziato per averlo riportato in Piazza San Pietro. Lì dove ha mostrato tutta la sua fragilità, ma anche tutto il carisma, quella «grazia» che è dono dello Spirito santo. E allora non c'è esagerazione nel parlare di martirio raccontando le richieste di trascurare la sua salute per non rinunciare agli impegni: perché lì c'è la radice greca della testimonianza, il vero dovere di un pontefice che è ponte verso un luogo dove male e malattia sono sconfitti. E questo Bergoglio ha raccontato fino all'ultimo, percorrendo il suo umano percorso di dolore, mostrando e quasi esibendo tutta la sua debolezza. Ma quella, rileggendo Kantorowicz, di uno solo dei due corpi del re: perché l'altro è quello che nei sovrani è politico, invisibile, incorruttibile. Mai invecchia, si ammala o muore. E questo ci resta, pensando a queste ultime settimane di Bergoglio che, in quanto papa, è tre volte sovrano: padre dei re, rettore del mondo e Vicario di Cristo. E ora? «Tutto è compiuto» disse Gesù nelle sue ultime parole secondo il Vangelo di Giovanni, l'evangelista filosofo. Compiuto, ma non dissolto in questo mondo nel quale l'immagine non è mai stata così pervasiva e semioticamente portatrice di messaggi. Facendo del calvario di Francesco la migliore omelia: cristiana e anche in questo caso allo stesso tempo laica, perché consolazione e invito al coraggio per chi è fragile e per chi fragile diventerà. Speranza per chi, come Francesco, immagina di ritornare alla casa del Padre, ma anche per chi la casa del Padre cerca di trovarla qui su questa terra. Scoprendo, magari, che proprio in questi giorni una piccola breccia si è aperta nel suo scetticismo.
Perché forse non è solo un caso che Bergoglio se ne sia andato proprio il Lunedì dell'Angelo, nel giorno di colui che porta l'annuncio. Il messaggio di un Papa arrivato dalla fine del mondo, per convincerci con la sua sofferenza che di mondo ne può esistere anche un altro.
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