A un certo punto la domanda di tuo figlio riassume quello che stai cercando di spiegargli: «Ma insomma: vincere la finale di Wimbledon è un po' come vincere la Champions League?». Maledetto calcismo italico, viene spontaneo pensare, pur sapendo poi che qualche ora dopo sarai lì anche tu ad ansimare dietro al pallone di Wembley. Però, nascosta in una domanda da ragazzo non avvezzo (ancora) al tennis, c'è la vittoria di Matteo: aver portato davanti alla tv una nazione unita e non averla delusa. Questo è il senso di una sconfitta che sa di qualcos'altro: insegnare che si può anche perdere, ma non tutto è perduto. Soprattutto se te la stai giocando nel campo che significa la storia del tuo sport. Contro quello che la storia del tuo sport la sta per scrivere. Wimbledon è questo e Matteo Berrettini lo ha onorato con una partita giocata al limite, probabilmente in certi momenti anche oltre. Alla pari, comunque, per lungo tempo. E quel ragazzo che non lo conosceva è rimasto davanti alla tv rapito, tanto che alla fine voleva sapere tutto di quel tennista coraggioso, capace di andare perfino in vantaggio (è il linguaggio del football) contro il più bravo. Anche se poi nel tennis non si è mai in vantaggio fino all'ultimo punto. Insomma: in un Paese capace solo di salire sul carro dei vincitori, questa volta molti sono rimasti ai bordi ammirati, evitando di dare giudizi dopo pochi game e seguendo col fiato sospeso una partita che non era un match qualunque. Lo hanno capito tutti e lo ha capito anche Matteo: Wimbledon non è un posto come gli altri, ed essere lì a lottare per quella coppa d'oro - e per un posto di socio del club più esclusivo del mondo -, è già qualcosa di grande, comunque vada.
Non stai a due passi dalla principessa Kate se non hai raggiunto qualche grado di nobiltà, e il resto verrà sicuramente. Ci sarà l'erba, le fragole con la panna, tutto l'armamentario che rende unico quell'angolo di Londra che è stato così azzurro. E alla fine potrai dirlo: «È come vincere la Champions League. Ma molto meglio».
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