La speranza è la prima a morire, in alta montagna: soprattutto se il più alto dei 4mila metri è tecnicamente considerato un 5mila. Soprattutto se per giorni si parla di «speranza» in rispetto dei familiari, ma è una speranza che in realtà è andata perduta già da sabato sera, dopo che Andrea Galimberti (53 anni) e Sara Stefanelli (41) avevano lanciato l'ultimo messaggio al cellulare: «Non vediamo nulla, venite a prenderci, rischiamo di morire congelati». Che è quello che è capitato. Da allora la loro batteria del telefono è risultata scarica o abbattuta dal gelo. Forse erano già in ipotermia, quando la temperatura corporea scende a 35°; dopodiché c'è l'assideramento, quando scende di più, e si fa irreversibile. È successo a loro e a due alpinisti coreani pure ritrovati ieri dalla gendarmerie francese che si divideva il lavoro col soccorso alpino di Courmayeur: ma non cercavano superstiti, cercavano salme. La giornata di sole ha permesso agli elicotteri di alzarsi. Tutto ciò che è stato detto o scritto sino al ritrovamento dei corpi era corrisposto a una rispettosa reticenza, compresa quella di chi ha scritto che i due italiani stavano scendendo lungo la via normale del rifugio Gouter. Forse l'hanno scritto perché il progetto iniziale prevedeva un'improbabile traversata. O forse la speranza non era morta e si auspicava che i due avessero scavalcato la cima per avvicinarsi alla metallica Capanna Vallot lungo la via dei Gouter, un bivacco a 4.362 metri previsto appunto per le emergenze. Sta di fatto che molti giornali hanno scritto che i due italiani erano dispersi «nella zona del Dôme du Goûter», zona che non c'entra niente e che dista almeno 1.000 metri da dove i due si sono fermati e sono morti: i corpi infatti sono stati ritrovati da tutt'altra parte, a mezz'ora dalla cima, nella zona del Mur de la Cote, un pendio ghiacciato molto ripido di almeno 50 gradi che è posto sulla stessa via percorsa all'andata. Non sappiamo neppure se siano mai arrivati in vetta, ma c'è da sperare, per loro, di sì.
Il Mur de la Cote tuttavia è un muro troppo scosceso per concedere di sostarvi o persino di morirvi: facile che i soccorritori abbiano individuato le salme più in basso, verso il Col de la Brenva, a 4.300 metri. Facile, pure, che l'azzardo e il coraggio si siano tramutate in un'incoscienza vista di spalle: le cordate sono partite dal rifugio Cosmique (zona francese, si deve prendere la funivia da Chamonix) a dispetto di due giorni di neve fresca che sicuramente aveva invischiato la Via dei Tre Monti, una delle quattro «normali» del Monte Bianco, più lunga e faticosa rispetto alla trafficata via dal rifugio Gouter, ma anche più esposta a seracchi e crepacci. Era buio e in effetti non nevicava, quando le cordate hanno lasciato il Cosmique, mai poi, ai primi chiarori, si è disvelato un cielo prima sereno e poi grigio, come da previsioni. Sta di fatto che il saliscendi lungo i colli Tacul e Maudit e Brenva, che di norma necessita da 4 a 6 ore, i due italiani l'hanno percorso in 11 ore, poco importa se stessero salendo o scendendo: avevano finito anche le batterie fisiche. Il maltempo ha mostrato il suo volto impietoso e indifferente: la neve, il vento, il whiteout che è la nebbia che non ti fa neanche vedere le scarpe. I due erano già sfiniti, e la loro ultima telefonata è partita in quel momento: sino ad allora non avevano scelto di rinunciare perché gli alpinisti sono così, una vetta è per la vita, anche se nel caso, purtroppo, lo è stata per due. Li hanno trovati nella stessa posizione che il Soccorso valdostano aveva localizzato dopo la loro richiesta di aiuto, non si erano mossi neanche per cercare riparo: segno che la chiamata è partita hanno quando erano allo stremo. L'alta montagna è un posto dove puoi tranquillamente morire anche se gli altri, dotati delle massime risorse e competenze, sanno che sei fermo immobile da tre giorni. Ma la speranza, probabilmente, è finita assiderata già subito, sabato sera, anche se gli elicotteri italiani e francesi hanno tentato di alzarsi più volte domenica e lunedì, poi martedì mattina ci sono anche riusciti, ma non hanno trovato nulla: sino all'ultimo decollo fatale di ieri pomeriggio.
«Per sabato mattina le previsioni davano bel tempo, mentre per il pomeriggio era annunciato un netto peggioramento: invece la bufera è arrivata prima», ha detto una nota guida alpina di Aosta al Messaggero di ieri. «Però il maltempo in quota, quello da Nord e Nordovest, proveniente dal Nord Atlantico, spesso anticipa» dice al Giornale un'esperta guida di Courmayeur. Incoscienza e coraggio come facce della stessa medaglia, si diceva.
«Settembre è un mese strano», continua la guida, «perché siamo a fine stagione e molti sono allenati e si sentono carichi, magari cercano l'impresa, un coronamento finale». Andrea Galimberti e Sara Stefanelli potevano dire di averlo avuto, visto che avevano appena scalato il Cervino che tecnicamente è anche più difficile del Bianco. Non era bastato, perché non basta mai.
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